venerdì 24 luglio 2009

Squilibri, crisi dello stato e professionismo sociale nella governance globale (32)

Campoleone, 27 aprile 2007

Premessa
Il presente contributo prende in esame tre temi di assoluto rilievo per una disamina circostanziata delle questioni sociali.

Il primo tema intende affrontare la contemporanea dimensione della globalizzazione non in termini ideologici, ma mettendo in evidenza i due grandi squilibri che caratterizzano l’attuale fase dei rapporti internazionali e le responsabilità a cui l’Europa continua colpevolmente a sottrarsi: gli squilibri economico finanziari con il deficit di partita corrente degli USA e della Gran Bretagna ed il surplus della Cina, Giappone e, più moderatamente dell’area dell’euro; gli squilibri energetici quale fonte degli squilibri politici, economici e commerciali a livello mondiale.

Il secondo tema affronterà la questione del ridimensionamento degli attori nazionali, ad iniziare dallo Stato e dalla nascita di nuovi attori internazionali, imprese multinazionali, organizzazioni internazionali, società civile, movimenti popolari. Qui le tesi sostenute sono a confutazione, cioè contestano la visione globale come premessa di un nuovo ordinamento politico internazionale non statale. La nuova percezione culturale del vivere in un mondo globale appartiene già a molte correnti internazionaliste del novecento. L’originalità della proposta federalista, pur nascendo nella più vasta dimensione del cosmopolitismo, mantiene, e per molti versi aumenta di spessore e di forza politica, quanto più gli squilibri globali obbligheranno a governare, realmente, i processi di cambiamento.

Il terzo tema analizzerà i rapporti tra società civile e deficit democratico all’interno del sistema di governance europeo. Particolare attenzione verrà dedicata ad una disamina delle organizzazioni che compongono la società civile (forme giuridiche, struttura, funzioni, risorse umane, risorse finanziarie), alla loro opera di lobbing (rappresentazione e tutela di interessi strutturati) all’interno del processo negoziale e funzionale del sistema comunitario. Inoltre verranno prese in esame le funzioni delle élite tecnocratiche ed altamente professionalizzate che governano le organizzazioni della società civile stessa ed il loro rapporto di stretta contiguità con le élite tecnocratiche delle istituzioni comunitarie.

Gli squilibri globali e le responsabilità europee

Globalizzazione è un termine molto alla moda, impegnativo, ma anche estremamente elastico, utilizzato a proposito e a sproposito, spesso per identificare una nuova realtà dove le leggi dell’economia ed i principi della politica sembrano non trovare più una opportuna collocazione.

L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) la definisce come: Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia».

Sebbene con questo termine ci si riferisca prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende multinazionali, il fenomeno va inquadrato anche nel contesto dei cambiamenti sociali (squilibri tra Nord e Sud, paesi poveri e ricchi), tecnologici (reti informatiche e di comunicazione) politici (fine dei regimi comunisti, nascita dei movimenti popolari internazionali non global e new global). Occorre aggiungere che si sta sempre più affievolendo il baricentro delle relazioni transatlantiche con l’emergenze delle potenze economiche asiatiche, ad iniziare dalla Cina che vanno a modificare il quadro delle relazioni commerciali, finanziarie ed industriali.

Non mancano intellettuali come Amartya Sen (1), economista indiano e premi Nobel per l’economia nel 1998, che tendono ad una lettura del fenomeno meno legata ad aspetti contingenti degli ultimi tre decenni. In particolare la Sen sostiene che i processi di globalizzazione sono in corso da almeno un millennio, attribuendo così al concetto una dimensione temporale e funzionale niente affatto discontinua rispetto alla sviluppo economico e politico così come conosciuto anche nel novecento.

Più che considerare il fenomeno nelle sue intrinseche qualità positive, quale strumento per lo sviluppo dei paesi poveri del mondo o negative, quale sistema economico che tende a far perdurare ed anzi accentuare le disparità tra il Nord ed il Sud del mondo, è opportuno identificare la natura degli squilibri globali, e, conseguentemente, le responsabilità dell’Europa nel governo delle relazioni internazionali.

Gli squilibri economico finanziari

Le grandi aree del mondo stanno sempre più aumentando lo squilibrio nei rapporti economici e finanziari. Il deficit di partita corrente degli Stati Uniti, Gran Bretagna e parte dell’America del sud continuano ad essere più che significativi. Quello USA è il 6% del Pil nel 2005. I pagamenti correnti degli altri paesi del G7 dell’area euro sono invece in surplus, come per il Giappone e la Cina. Si aggiunga che lo yuan cinese, seppur abbandonato nel luglio 2005 l’aggancio con il dollaro, per trasferirsi ad un paniere di valute, di fatto opera ancora in un sistema di cambi fissi che ricorda il sistema di Bretton Woods che legava, negli anni sessanta, i paesi europei e gli USA. Il deficit americano era finanziato dalla accumulazione di dollari nelle riserva europee così come oggi la Cina e altri paesi asiatici finanziano il deficit americano. Fino a che punto il sistema reggerà? Cosa avrà quando si passerà alla flessibilità piena della moneta cinese?

All’Europa toccherebbe raccogliere la sfida della competitività attraverso lo sviluppo delle proprie capacità di offrire servizi avanzati, attraverso una politica di liberalizzazione del mercato dei servizi, di cui la Cina ha ed avrà ancora più nel futuro un grande bisogno. La strategia di Lisbona non è decollata in sviluppata all’interno di una visione intergovernativa. I piani d’azione sono stati relegati a livello nazionale che hanno dato risultati del tutto insufficienti di fronte alla necessità di cambiamenti strutturali. Quei cambiamenti che, inevitabilmente, andranno ad incidere anche sul modello di welfare state (pensioni, sanità, ricerca, formazione permanente, mercato del lavoro)(2).

La governance europea si è limitata, e non avrebbe potuto fare altro, a codificare alcune attività e a definire la cornice istituzionale. In particolare attraverso la definizione di obiettivi e linee guida comuni e la successiva individuazione di indicatori comuni su cui basare la valutazione delle performance nazionali. Inoltre ha previsto la predisposizione di piani d’azione nazionali monitorati da Commissione e Consiglio. Un’azione di benchmarking che in cinque anni, è stata, come ampiamente prevedibile, sostanzialmente inutile ed improduttiva.

Premessa indispensabile per lo sviluppo di una coerente politica di rilancio della competitività è l’integrazione dei mercati finanziari europei. Giusto, Jappelli, Padula e Pagano (3), hanno valutato che il Pil europeo potrebbe aumentare sino al 10% a seguito di un’effettiva integrazione finanziaria che poggi sulla costituzione di una borsa continentale. Altri autori, e la Commissione stessa, si sono esercitati in numerose simulazioni di misure di politica economica direttamente collegate alla strategia di Lisbona.

Gli squilibri energetici

La prima e la seconda legge della termodinamica regolano la trasformazione dell’energia. La prima afferma che il contenuto totale di energia dell’universo è costante (non può essere ne creata ne distrutta) ma si trasforma solo da uno stato all’altro. La seconda stabilisce che l’entropia totale è in continuo aumento, cioè che l’energia cambia continuamente stato ma solo in un’unica direziona, da disponibile ad indisponibile, dall’ordine al disordine. E’ possibile invertire il processo antropico solo utilizzando altra energia. La società umana è organizzata dal continuo sforzo di convertire l’energia disponibile ricavata dall’ambiente al fine di sostenere l’esistenza stessa del genere.

In buona sostanza le leggi della termodinamica governano l’ascesa e la caduta dei sistemi politici, la libertà delle nazioni, la sudditanza di alcuni popoli ad altri, i movimenti del commercio e dell’industria. Nel mondo contemporaneo, la guerra e la pace, la ricchezza e la povertà, la democrazia e la tirannide, troveranno nell’accesso alla produzione e alla trasformazione dell’energia motivo primo e fondamentale di indirizzo (4).

Attualmente l’80% circa dell’energia consumata nell’Ue deriva dai combustibili fossili: petrolio, gas naturale e carbone. Di questa percentuale, una parte considerevole, in costante aumento, proviene da paesi terzi. La dipendenza dalle importazioni di petrolio e di gas, che attualmente è del 50%, potrebbe salire all’80% di qui al 2030. L’Unione diventerà così sempre più sensibile alle riduzioni degli approvvigionamenti o all’aumento dei prezzi. A tutto ciò si aggiunga che è assolutamente necessaria una riduzione del consumo dei combustibili fossili sia per invertire la tendenza al riscaldamento globale che per rallentare l’esaurimento irreversibile di tale fonti.

Il Consiglio europeo dell’8-9 marzo 2007 (5) ha adottato un piano d’azione riguardante la politica energetica. L’attenzione è stata posta sul mercato interno del gas e dell’elettricità, la sicurezza dell’approvvigionamento, la politica energetica internazionale, l’efficienza energetica e le energie rinnovabili, le tecnologie energetiche. Il Consiglio ha altresì indicato nel 30% l’obiettivo di riduzione dell’ emissione dei gas serra tra i paesi industrializzati successivo ad un accordo sul regime applicabile dopo il 2012. Da parte sua l’Unione si è impegnata ad abbattere le proprie emissioni, entro il 2020, di almeno il 20%.

Gli impegni presi dai 27 riguardano sostanzialmente un quadro di rapporti intergovernativi che per loro natura saranno destinati ad un probabile fallimento. Ne più ne meno di quanto sta attualmente avvenendo per la strategia di Lisbona. Si lascia alla libera determinazione degli stati membri individuare tanto le modalità di attuazione che le risorse finanziare necessarie. In tale quadro la Commissione è destinata a svolge un ruolo notarile, di segretariato ed al massimo di assistenza. Un ennesimo esempio di governance che governa poco o nulla.

L’Europa manca di un mercato unico relativo alla produzione e alla commercializzazione. I singoli stati europei stipulano singoli accordi bilaterali, sia di fornitura che di investimento in infrastrutture, raggiungendo l’unico fatale obiettivo di aumentare il potere contrattuale della controparte, ad iniziare dalla Russia. Solo la cooperazione con una pluralità di paesi produttori potrebbe garantire stabilità economica nella fase di transizione dalle energie fossili a quelle rinnovabili. Ma questa politica energetica avrebbe bisogno di una coerente politica estera e di sicurezza comune, che manca oggi e che non troverà certo soluzione nemmeno nel TCE.

La sfida energetica rientra nella termodinamica, nella ragion di stato, nella sopravvivenza delle società ricche ed industrializzate, nell’accesso di gran parte della popolazione mondiale al modello di vita occidentale. E’ qui che si gioca il futuro o la marginalizzazione dell’Europa all’interno del quadro sempre più dinamico delle relazioni internazionali (6).

La risposta europea agli squilibri globali

L’integrazione finanziaria e la creazione della borsa europea possono essere mai sviluppate all’interno del modello comunitario funzionalista senza una coerente adesione alla soluzione statuale di tipo federale? E possibile pensare ad una politica energetica europea con lo strumento, ami utilizzato sino ad ora, delle cooperazioni rafforzate? Si può affrontare la questione energetica senza una politica nucleare unica? Si possono garantire la pluralità degli approvvigionamenti senza una politica estera e di difesa e confidando solo in Mister Pesc o ministro degli affari esteri che dir si voglia?

Tommaso Padoa Schioppa (7), nella Lecture Spinelli del gennaio 2007 risponde in maniera inequivoca:“La cura altro non è che la scelta consapevole del modello federale, quello che crea un effettivo potere di decidere e di agire a un livello superiore a quello degli Stati per le materie che gli Stati non sono più in grado di affrontare da soli. Solo questa scelta può ,rimediando alla mancanza di Europa, rimediare alle pretese mancanze dell’Europa. Una tal scelta non si traduce in realtà senza una discontinuità nell’assetto costituzionale. È dunque una scelta di fondo che deve venire prima della determinazione delle specifiche forme, pur tanto importanti, che può assumere il modello federale nell’Europa ancora da costruire.”

La questione della fondazione dello stato federale si sta progressivamente affermando come scelta ormai non più ulteriormente dilazionabile.

Crisi dello stato e governance mondiale

Il sociologo tedesco Ulrich Beck (8)definisce la globalizzazione quale processo irreversibile per cui gli stati, gli attori nazionali, perdono di importanza rispetto agli attori transnazionali. In tale visione la società non è più limitata ad uno stato ma al pianeta intero.

La globalità viene indicata quale percezione del vivere nella società globale, una sorta di coscienza civile collettiva di appartenenza ad una nuova dimensione culturale. Infine viene definito il concetto di globalismo quale corrente a carattere prettamente economico. Essa ritiene che il mercato debba agire da solo, in presenza di uno stato sempre più minimale, lasciando che economia e società globali trovino da soli i proprio strumenti di regolazione. Un sorta di liberalismo globale a cui si contrappongono coloro che chiedono barriere protezionistiche per motivi economici, ambientali o sociali. Alcuni di questi ultimi riprendono spesso la critica di origine marxista tra mercato e società.

Ovviamente una disquisizione in termini filosofici o sociologici della questione dello crisi dello stato nazionale nella prospettiva globale non risulta essere di particolare utilità ai fini di un’analisi politica sul da farsi per l’oggi e non per un futuro indeterminato, come nella migliore tradizione della proposta federalista (9).

Si può altresì notare come le approssimazioni teoriche sulla presunta progressiva estinzione dello stato quale forma di organizzazione ordinamentale si tentano di accreditare anche nel pensiero giuridico costituzionale. Anche nel recente dibattito sulla Trattato costituzionale europeo una consistente parte delle correnti politiche della sinistra radicale, che quasi sempre si riconoscono anche nei movimenti popolari, i presunti attori politici sovrannazionali, hanno sostenuto il processo costituzionale proprio ed in quanto aveva l’ambizione di non concretizzarsi in alcuna forma statuale.

Angelo Bolaffi, teorico della filosofia politica è uno dei sostenitori della teoria antisovranista in cui si afferma che unità politiche, spesso indefinibili giuridicamente, possano esistere al di la e oltre la forma statale. In un articolo su "Il Riformista” (10) ha sostenuto che va definitivamente archiviata quel combinato disposto dei sovrasti che individuano la politica solo nello stato nazione e le posizioni del federalismo radicale per le quali l’Europa unità non potrà che esistere nella forma dello stato federale. Secondo l’autore, che sostiene la visione dei due fuochi di legittimità, la realtà postatale sarebbe, in buona sostanza l’Unione stessa come oggi la conosciamo che racchiude in se la legittimità nazionale e quella comunitaria.

Ad una più attenta analisi appare evidente come l’impostazione risenta più di un antistatalismo atavico di fonte marxista che una reale corrente all’interno del pensiero giuridico costituzionale. Sulla questione si è esercitato il costituzionalista Maurizio Fioravanti, sostenitore, forse non pienamente avveduto ed oggi meno convinto, della costituzione europea senza stato e di un nuovo federalismo post statale (11).

In un suo intervento (12) nel corso del recente del convegno “Le Prospettive del federalismo in Europa” del 26 gennaio scorso è ritornato sull’idea dell’ellisse a due fuochi. Egli non elude il problema delle legittimità democratica, del principio democratico ed in ultima analisi dello stesso principio di sovranità ed aderisce al principio kelnesiano secondo cui esiste tanto stato quanto né è previsto nella sua costituzione.

Ovviamente respinge l’idea di Europa come coesistenza di sovranità nazionali, l’ipotesi sovranista degli stati nazionali, ma pone all’estremo opposto, non il modello federale tradizionale, ma uno scenario che definisce del tutto improbabile, quello che prevede una più o meno rapida dissoluzione delle sovranità statali a favore di un ordine sovrannazionale che sia, e riporto testualmente, “quasi miracolosamente capace di tenere in equilibrio tutti gli attori pubblici e privati, comunitari e statali”.

E’ del tutto evidente come la soluzione propugnata da Bolaffi, non venga considerata come la sintesi dell’ipotesi dei due fuochi ma una visione radicale e per nulla sostenibile di un nuovo ordine politico indefinibile che presuppone di poter fare a meno del principio di sovranità.

Fioravanti sostiene una terza soluzione. Accetta di scendere sul terreno del principio di sovranità per aderire ad una sua visione “condizionata” da far esistere all’interno di una “forma politica europea” considerata quale intero entro cui stanno gli stati nazionali. Questa è in ultima analisi la sua proposta di ellisse a due fuochi.

A ben vedere un intero, composto da parti distinte, che tali rimangono anche trovando nuova identità nell’intero a sovranità condizionate secondo il principio di sussidiarietà si chiama Stato federale, ma il nostro non riesce proprio a pronunciare la parola, è una cosa troppo tradizionale. Mario Albertini le ha chiamate cose “dure ed angolose” (13). La questione viene liquidata in passaggio emblematico che riporto testualmente :”Si dice comunemente che la soluzione a questo proposito non può essere quella classica dello stato federale. Bene: ma allora cos’altro?”

E chi lo dice? Sicuramente i detentori del potere nazionale, i profeti dell’internazionalismo orami orfano di ogni possibile radice ideologica. L’unica cosa certa è che lo dice chi non vuole l’Unione politica europea. Lo Stato federale non è una buona soluzione, ma un’ottima soluzione per la forma politica da affidare all’Unione europea.

Ovviamente della cosa non ci meravigliamo più di tanto. Gli studiosi, gli accademici, tendono, quasi esclusivamente, ad attribuire valore teorico ai fatti politici della realtà e molto raramente propongono soluzioni teoriche per modificare la realtà.

I migliori discepoli del ’68 sono stati culturalmente recuperati aprendogli le porte dell’accademia. In gran parte sono diventati i migliori alleati dell’ordine costituito. Possono mai essere i teorici di un nuovo ordine internazionale che va a scardinare le logiche di potere a cui devono molto, forse troppo?

Peter Häberle, forse il maggior analista della realtà giuridico costituzionale europea, ha recentemente dichiarato: “siamo tutti nani sulle spalle di Altiero Spinelli”.

Società civile e deficit democratico europeo

Il Libro bianco del 2001 della Commissione “La Gorvenance europea” identifica nel dialogo con la società civile una delle fonti di legittimità della Commissione e, più in generale dell’Unione stessa. Per molti versi lo sviluppo stesso della democrazia a livello internazionale ha trovato nelle forze dinamiche della società civile un sistema per controbilanciare la carenze di legittimità delle organizzazioni internazionali, Nazione Unite ed Unione europea.

Tali posizioni si sono andate consolidando nel corso degli anni ’90 grazie a due fondamentali fenomeni (14). Il primo si è alimentato per l’esigenza delle società postcomuniste di ricostruire lo Stato di diritto e di realizzare il valori basilari di libertà, eguaglianza, giustizia, sicurezza ed equità sociale. Il secondo ha riguardato in particolare i paesi occidentali a democrazia consolidata al di qua e al di la dell’Atlantico. In questo caso si sono avanzate richieste di una nuova divisione dei poteri tendenti ad affermare l’esigenza della solidarietà a tutela delle disuguaglianze globali: fame nel mondo, migrazioni di massa, tutela dell’ambienta, multiculturalità.

Una vera e propria scuola propedeutica di democrazia per gli altri in cui particolare rilevanza hanno acquistato le organizzazioni non governative a carattere internazionale. Le ONG si occupano di questioni settoriali come la politica agraria, il rapporto tra il Nord ed il Sud del mondo, la politica
per la pace, la tutela dell’ambiente, la questione femminile. Il ruolo prepolitico delle ONG negli anni 80 e 90 è in gran parte all’origine dei movimenti popolari internazionali new global e non global.

Obiettivo prioritario della società civile negli anni ’90 è stata pertanto l’elaborazione di una magna Charta dei diritti. Non è un caso che la carta dei diritti di Nizza, ora incorporata nel progetto di trattato costituzionale del 2004 (TCE) sia strenuamente ancor oggi difesa da tali organizzazioni. La convinzione comune è che lo Stato di diritto internazionale possa superare la concezione classica dello Stato federale e che nel rapporto dialettico tra istituzioni e tecnocrazie europea la società civile possa risolvere la questione del deficit democratico (15).

Il dialogo con la società civile si sostanzia in un rapporto strutturale, permanente e di rete che prevede la partecipazione ed il dialogo a tutti i livelli, dalla definizione delle politiche e alla loro attuazione. In buona sostanza si definiscono e si rafforzano i canali attraverso i quali, specifici interessi organizzati, sostanzialmente a carattere corporativo, fanno valere le loro istanze.

Prima di analizzare i rapporti tra società civile e dinamiche di governance comunitarie sarà bene tentare di definire le caratteristiche dell’oggetto dell’indagine. Cos’è la società civile? Quali sono le possibile accezioni del concetto? Quali sono i soggetti che ne fanno parte? Che natura, funzioni, struttura, bilancio patrimoniale hanno?

I soggetti che compongono la società civile

Il filosofo polacco Lesezek Kolakowski delinea tre accezioni del concetto e più precisamente: 1) Nel senso di Rousseau, si tratta della società contrapposta allo stata di natura, e quindi civile nel senso di civilizzata; 2) nel senso hegeliano, si tratta della società civile contrapposta alla Stato; 3) Comunità di cittadini che agiscono per senso civico nell’interesse della rea pubblica.

Può altresì aiutarci la definizione di società civile così come enunciata nel libro bianco della Commissione europea (16): “La società civile comprende le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali (le parti sociali), le organizzazioni non governative, le associazioni professionali, le organizzazioni di carità, le organizzazioni di base, le organizzazioni che cointeressano i cittadini nella vita locale e comunale, con un particolare contributo delle chiese e delle comunità religiose”.

Proviamo a scendere ulteriormente nel dettaglio.

Parti sociali

Per quanto riguarda le parti sociali basti qui ricordare che il loro ruolo di dialogo interistituzionale risente direttamente dei limiti operativi della politica sociale europea, da cui restano escluse gran parte delle politiche del “welfare state”(pensioni, sicurezza sociale, assistenza sanitaria, diritto di sciopero) (17). A ben vedere la parti sociali svolgono un’azione incisiva a livello comunitario solo nei settori elencati dall’articolo 137 del TUE (18), quantunque scontino una oggettiva mancanza di rappresentatività non avendo nessun reale mandato negoziale a sostegno di accordi collettivi, ma pure funzioni consultive.

Organizzazioni non governative

Le Organizzazioni non governative generalmente, anche se non sempre, sono organizzazioni non aventi fini di lucro indipendenti dai governi e dalle loro politiche, che ottengono almeno una parte significativa dei loro introiti da fonti pubbliche e private. L' espressione organizzazione non governativa, è stata menzionata per la prima volta nell'ambito delle Nazioni Unite (19). Tra di esse si distinguono quelle attive a sostengo della affermazione dei diritti umani nel campo della cooperazione allo sviluppo, della pace e dell’ambiente. Caratteristica di queste organizzazioni è una forte spinta ideale, finalizzata all'obiettivo di contribuire allo sviluppo globale dei paesi socialmente ed economicamente più arretrati (20). Alcune di queste ONG, poche in verità, di definiscono antagoniste e si oppongono alle politiche di cooperazione finanziate dai governi.

In Italia le ONG riconosciute e finanziate dal Ministero degli Affari Esteri (21) sono circa 180. Esse operano nel campo della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo e possono ottenere il riconoscimento di idoneità con Decreto del MAE (22). Il principale effetto di tale riconoscimento è la possibilità per le ONG di ottenere dei contributi per lo svolgimento di attività di cooperazione da loro promosse, in misura non superiore al 70 per cento dell'importo delle iniziative programmate.

Inoltre possono essere affidatarie di realizzare programma specifici di cooperazione i cui oneri sono finanziati dallo stato.

Per gli altri soggetti componenti la società civile, secondo la definizione del libro bianco della Commissione, occorre tentare di proseguire nell’analisi facendo riferimento al caso italiano e prendendo come riferimento la Classificazione delle forme giuridiche legali così come sviluppate dall’ISTAT nella pubblicazione Metodi enorme n. 26 del 2005 (23).

Società cooperativa sociale

Le cooperative sociali (24), disciplinate con L. n. 381/1991, si distinguono dalla tipologia classica delle cooperative per il perseguimento di un fine che è esterno al gruppo sociale che le costituisce, ossia l’interesse sociale alla “promozione umana” e alla “integrazione sociale dei cittadini” diversamente dal perseguimento degli interessi dei soci della cooperativa. Le attività che le cooperative sociali svolgono sono essenzialmente due: quella della gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di servizi) volte all’inserimento di persone svantaggiate.

Associazione riconosciuta

Per associazione riconosciuta si intende un ente di diritto privato, dotato di personalità giuridica e caratterizzato da una struttura associativa, a base contrattuale e con la partecipazione di una pluralità di persone. Tali enti non hanno una finalità lucrativa e sono caratterizzati dalla preminenza della volontà degli associati. Elementi costitutivi sono la pluralità di persone e lo scopo comune. In tali associazioni l’intervento dello Stato assume connotati più penetranti. Il legislatore, infatti, provvede a sancire una serie di regole volte fondamentalmente a garantire il raggiungimento dello scopo dell’ente e a tutelare sia le persone fisiche che ne fanno parte, sia i terzi che con questo entrino in contatto.

Fondazione (esclusa fondazione bancaria)

Per fondazioni (25) si intendono quegli enti a struttura istituzionale forniti di personalità giuridica, costituiti da volontà unilaterale di un costituente o fondatore. Tali enti sono caratterizzati dalla preminenza della volontà del fondatore e, quindi, dall’assenza dell’organo assembleare. Esse non hanno per scopo lo svolgimento di attività economiche e si distinguono dalle associazioni per la preminenza dell’elemento patrimoniale su quello personale. Elementi costitutivi della fondazione sono, pertanto, il patrimonio e lo scopo.

Ente ecclesiastico

Per ente ecclesiastico (26) si intende una categoria giuridica propria dell’ordinamento statale e non dell’ordinamento canonico. Tale nozione è attribuita dallo Stato in stretta relazione con l’attività effettivamente espletata dall’ente che deve perseguire fini di religione o di culto. Gli enti ecclesiastici vengono riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili e sono tenuti all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche private in modo da rendere conoscibili le norme interne di funzionamento ed i poteri degli organi di rappresentanza. Anche gli enti delle confessioni non cattoliche sono enti ecclesiastici. Sono considerate attività di religione e di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana.

Società di mutuo soccorso

Per società di mutuo soccorso (27) si intendono quegli enti che si propongono il fine di assicurare ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavoro o di vecchiaia e venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti. Tali società possono conseguire la personalità giuridica nei modi stabiliti dalla l. n. 3818/1886. In via generale il mutuo soccorso può essere considerato come un’operazione attraverso la quale, al fine di raccogliere mezzi economici per ripartire i rischi, un gruppo di persone, a quegli stessi rischi potenzialmente soggetti, si quota per un certo importo. Caratteristica fondamentale deve necessariamente essere la totale mancanza del fine lucrativo. L’attività svolta dalle società di mutuo soccorso, specie di quelle di più recente costituzione si è spostata verso spazi di intervento rivolti all’assistenza sanitaria integrativa. Questi organismi beneficiano di agevolazioni ed esenzioni sia per l’imposizione diretta che indiretta.

Associazione non riconosciuta

Per associazione non riconosciuta (28) si intende un gruppo di persone organizzatosi spontaneamente e stabilmente per perseguire uno scopo di comune interesse a carattere non economico, senza il riconoscimento statale e quindi privo della personalità giuridica. Lo scopo perseguito dalle associazioni non riconosciute non è lucrativo. La finalità di tali enti è una finalità ideale: politica, sindacale, culturale, sportiva, eccetera. L’associazione non riconosciuta è caratterizzata da una struttura aperta del rapporto, e cioè vi è la possibilità che nuovi membri aderiscano liberamente al gruppo.

Comitato

Il comitato è composto da un gruppo di persone che, attraverso un’aggregazione di mezzi materiali, si propone il raggiungimento di uno scopo altruistico. Il comitato mira alla formazione di un patrimonio destinato ad uno scopo. Il vincolo di destinazione che grava sui fondi raccolti non può essere modificato successivamente dai componenti il comitato. I casi di comitati più frequenti nella pratica sono: i comitati di soccorso, di beneficenza, di promozione di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti e così via.

Le Cooperative sociali in Italia

Particolare rilievo sociale ed economico è assunto dalle cooperative sociali. Per una analisi della loro natura e funzioni si fa riferimento alla relativa pubblicazione dell’Istat (29). I base alla legge 381 del 1991, esse si distinguono in quattro tipologie:
• cooperative di tipo A, se svolgono attività finalizzate all’offerta di servizi socio-sanitari ed educativi;
• cooperative di tipo B, se svolgono attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate;
• cooperative ad oggetto misto (A+B), se svolgono sia attività relative all’offerta di servizi sociosanitari ed educativi, sia attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate;
• consorzi sociali, cioè consorzi costituiti come società cooperative aventi la base sociale formata in misura non inferiore al settanta per cento da cooperative sociali.

Le cooperative sociali attive in Italia al 31 dicembre 2003 sono 6.159. Rispetto ai risultati della rilevazione precedente, riferiti al 2001, il numero delle cooperative sociali attive è cresciuto del 11,7 per cento. La metà delle cooperative è localizzata nell’Italia settentrionale (2.926 cooperative, pari al 47,5 per cento del totale), mentre nel Centro e nel Mezzogiorno opera, rispettivamente, il 20,1 per cento (pari a 1.235 cooperative) e il 32,4 per cento (pari a 1.998).

I soci delle cooperative sociali sono 220.464, distinti in 214.970 persone fisiche e 5.494 persone giuridiche. Il 96,7 per cento delle cooperative impiega personale retribuito (dipendenti, collaboratori e lavoratori interinali). I lavoratori occupati sono in tutto 189 mila, con una media di 30,7 lavoratori per cooperativa.

Dal punto di vista economico le cooperative sociali fanno registrare nel 2003 un valore della produzione complessivamente pari a 4.652 milioni di euro, con un importo medio per cooperativa di circa 755 mila euro.

Nelle cooperative sociali operano con 221.013 persone, di cui 161.248 dipendenti, 27.389 lavoratori con contratto di collaborazione, 27.715 volontari, 3.357 volontari del servizio civile1, 807 religiosi e 497 lavoratori interinali.

Così come per i soci anche per il personale non si può fare a meno di notare la significativa presenza di donne. La quota di donne sul totale è, infatti, pari al 69,7 per cento. Tale quota sale al 73,1 per cento tra i dipendenti, mentre scende rispettivamente al 52,9 per cento e al 33,0 per cento tra i volontari e i religiosi.

Il totale delle entrate delle cooperative è composto in misura prevalente dai ricavi delle vendite e delle prestazioni di fonte pubblica e di fonte privata (pari al 68,9 per cento e al 26,1 per cento, rispettivamente), e da una quota residuale di altri ricavi2 (5,0 per cento). La prevalenza del ricorso al finanziamento pubblico è relativamente più accentuata per le cooperative di tipo A (71,9 per cento), mentre lo è meno per le cooperative di tipo B (50,4 per cento).

Il costo della produzione vede la prevalenza di spese per il personale (56,1 per cento) e, in via secondaria, di spese per servizi (28,9 per cento), per materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci (7,2 per cento), di altri costi (7,8 per cento).

Le istituzioni non profit in Italia

Per una disamina relativa alle organizzazioni non profit, con una particolare attenzione a quelle operanti nel settore della cooperazione allo sviluppo si è preso in esame la rilevazione censuaria dell’ISTAT del 1999 (30).

Sono 221.412 gli enti non profit censiti nel 1999 di cui 165.336 svolgono attività regolare tutto l’anno. Tali enti si distinguono in Associazioni riconosciute, Fondazioni, Associazione non riconosciuta, Comitati, Cooperativa sociale ed altre forme. Sono 2.570 le imprese controllate dagli enti non profit. Quelle operanti nel settore ambientale sono 3.277.

Nella cooperazione e solidarietà internazionale operano 1.433 enti. Di queste 420 sono associazioni riconosciute, 36 Fondazioni, 845 sono associazioni non riconosciute, 90 sono comitati, 10 le cooperative sociali, e 30 hanno altra forma giuridica.

Le non profit censite nel 1999 hanno in totale 531.926 lavoratori dipendenti, 17.546 distaccati o comandati, 79.940 a collaborazione continuata e continuativa, 3.221.185 volontari, 96.048 religiosi, 27.788 obiettori.

Le organizzazioni operanti nel settore della cooperazione e solidarietà internazionale impiegano 908 dipendenti, 154 lavoratori distaccati, 597 a co.co.co., 34.230 volontari, 1.241 religiosi e 293 obiettori.

Le entrate delle istituzioni non profit ammontano ad un totale di 73.116,868 miliardi di lire di cui 839,881 sono le entrate delle non profit operanti nella cooperazione e solidarietà internazionale. Le uscite sono pari a 68.911,900 miliardi, con 817,805 miliardi per quelle della comparazione e solidarietà internazionale.

Le fonti di entrate sono costituite da 26.368,799 miliardi di lire di fonte pubblica provenienti da contributi a titolo gratuito e ricavi per contratti e/o convenzioni con istituzioni e enti pubblici nazionali ed internazionali. 12.180,167 miliardi sono i contributi degli aderenti. 10.279,716 miliardi sono i ricavi provenienti dalla vendita di beni e servizi, 2.394,400 da donazioni e lasciti, 5.915,171 miliardi sono i redditi finanziari e patrimoniali e 6.978, 614 miliardi sono le altre entrate di fonte privata.

Nelle uscite le principali destinazioni sono 24.936,388 miliardi di lire per il personale dipendente e 19.800, 230 miliardi per acquisto di beni e servizi.

Nel settore della cooperazione e solidarietà internazionale 118,453 miliardi di lire provengono da sussidi e contributi pubblici a titolo gratuito. 171,423 miliardi di lire provengono da contratti e convenzioni con enti pollici nazionali ed internazionali. 51,412 sono i miliardi di lire versati dai soci, 64,881 miliardi sono i ricavi provenienti dalla vendita di beni e servizi, 29,.878 da donazioni e lasciti, 20,420 da redditi finanziari e patrimoniali e 117,414 miliardi sono le altre entrate di fonte privata per un totale di 839,881 miliardi di lire.

La società civile quale rappresentanza funzionale di interessi nell’azione di lobbing comunitario

I dati e le rilevazioni sopra riportate, seppur attinenti esclusivamente al caso italiano, possono sicuramente essere sufficienti per tratteggiare un quadro complessivo degli interessi sociali, politici, economici e finanziari rappresentanti dalle istituzioni che compongono la società civile.

I grandi interessi attenti al trasferimento delle competenze a livello comunitario trovano tra Bruxelles e Strasburgo un’ampia gamma di rappresentanza. Le grandi imprese, le rappresentanze di alcuni settori economici, le regioni della aree forti, transfrontaliere ed ultraperiferiche esercitano un’azione di lobbing, oltre che sulla Commissione e Parlamento, sui Governi nazionali in sede di Consiglio. I Governi sono molto sensibili per ovvi motivi elettorali e di raccolta del consenso politico.

Tra questi gruppi di interesse si colloca a tutti gli effetti anche la società civile come precedentemente identificata portatrice di interessi diffusi, ma molto più spesso di argomentazioni tecniche e settoriali che hanno esclusivo riferimento ai proprio interessi consolidati e strutturati.

Si aggiunga che il dialogo sociale europeo subisce una serie di limiti intrinseci che con aiutano di certo a sostenere una reale e diffusa partecipazione dei cittadini, i rappresentati della società civile.

Solo pochi privilegiati hanno accesso e partecipano alla vita comunitaria sotto forma di gruppi di pressione organizzati. Essi sono delle vere e proprie élite che tendono a rafforzarsi sempre più nelle proprie risorse finanziare e concettuali. I coordinamenti europei delle organizzazioni della società civile sono riconosciuti e finanziati dalla Commissione stessa, né più ne meno che i partiti politici europei (31).


Da questo punto di vista il dialogo con la società civile non è certo un modo per risolvere il problema del deficit democratico. Le decisioni di governo, e le relative iniziative politiche, non sono più democratiche quanto più è diffusa la comunicazione, la consultazione e la partecipazione. La legittimità democratica si acquista attraverso il dibattito politico e l’investitura popolare.

Si tenga inoltre presente che le elite tecnocratiche della società civile sono selezionate e finanziate esse stesse dal livello di governo e che la verifica della reale rappresentatività, senza consultazione popolare e ben poco compatibile con i postulati democratici che prevedono i meccanismi tipici del voto individuale. La legittimità del dialogo sociale e conseguentemente dell’azione delle organizzazioni della società civile, è esclusivamente funzionale e si inquadra all’interno del metodo comunitario che si caratterizza per fenomeni sostanzialmente neo-cooporativi.

Ogni rafforzamento del dialogo sociale può non favorire, anzi talvolta può contraddire, la legittimità democratica che viene arbitrariamente perseguita.

Identiche considerazioni possono essere formulata in merito al ruolo svolto dalla società civile nel rendere il più possibile pubblica e trasparente la riflessione sulla futuro dell’Europa e sugli assetti istituzionali dell’Unione in seno ai lavori della Convenzione di Bruxelles. Agli incontri hanno partecipato un numero estremamente ristretto di rappresentati della società civile organizzata, elitè in assoluto rapporto di contiguità istituzionale con la tecnocrazia di Bruxelles. Non si può non sottolineare come il dibattito abbia in ogni caso sostenuto la dialettica dei partiti politici e come le opinioni pubbliche nazionali siano state parzialmente coinvolte anche grazie ad una maggiore attenzione dei media. In ogni caso ancora troppo poco rispetto all’obiettivo di una vera politicizzazione del dibattito europeo.

Campoleone, 27 aprile 2007

(1)Amartya Sen, Globalizzazione e liberta, Mondatori, 2002

(2)Pier Carlo Padoan, Gli squilibri globali e l’Europa, in I dilemmi dell’integrazione il futuro del modello sociale europeo”, a cura di G. Vacca e J.L. Rhi-Sausi, Il Mulino, Bologna, 2006

(3)L. Guiso, T. Jappelli, M. Padula e M. Pagano, Eu Finance and Growth, in “Economic Policy”, n. 40, ottobre 2004

(4) Jeremy Rifkin, Economia all’idrogeno, Mondatori, Milano 2002

(5) Consiglio europeo di Bruxelles 8-9 marzo 2007, Conclusioni della Presidenza. http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/93153.pdf

(6) Editoriale, Il Federalista, Pavia, anno XLIX, 2007, numero 1

(7) T. Padoa Schioppa, Mancanze d’Europa, Torino, 17 gennaio 2007. http://www.mef.gov.it/documentazione/discorsi-del-ministro/media/185710_TPSSpinelli.pdf

(8) Ulrich Beck. Che cosa è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria. Carocci, Roma, 1999

(9)A.S. e E.R., Problemi della federazione europea, Progetto di un Manifesto, Società Anonima Poligrafica Italiana, Roma 22 gennaio 1944.“Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.”

(10)Angelo Bolaffi, La sfida di darsi una Costituzione non più legata allo Stato-nazione, Il Riformista, 24 gennaio 2007

(11)Maurizio Fioravanti, I due fuochi vitali dell’Unione, CaffèEuropa, 26 dicembre 2005

(12)Maurizio Fioravanti, Per un nuovo federalismo europeo, in Convegno Le prospettive del federalismo in Europa, Roma, 26 gennaio 2007

(13) Mario Albertini, Le radici storiche e culturali del federalismo europeo, in Il Federalismo: antologia e definizione, Il Mulino, Bologna, 1979.“Opinioni di questo genere, che ignorano che la federazione e' uno stato mentre la confederazione non lo è, che ignorano che un gruppo di stati nazionali mantiene le sue caratteristiche essenziali fino al momento nel quale viene sostituito da uno stato federale, possono manifestarsi solo perché "le idee sono malleabili". Ma "le cose sono dure ed angolose", ed e' per questo che le sole idee che valgono, che servono agli uomini per operare, sono quelle che fanno davvero i conti con le cose, per dure ed angolose che siano”.

(14) Christine Martha Merkel. Lo sviluppo della società civile europea come base della democrazia, in Il federalismo e la democrazia europea, a cura di Gustavo Zagrebelsky, la Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994

(15) Nicola Verola, L’Europa legittima, Passigli Editore, Firenze, 2006

(16)La Governance europea, Libro bianco della Commissione, COM (2001)428, luglio 2001

(17)M. Grandi, La contrattazione collettiva europea- aspetti giuridici, in Fondazione Giulio Pastore, Diritto e politiche del lavoro, La contrattazione collettiva europea – Profili giuridici ed economici, Franco Angeli, Milano, 2001

(18) Articolo 137
1. Per conseguire gli obiettivi previsti all'articolo 136, la Comunità sostiene e completa l'azione degli Stati membri nei seguenti settori:
a) miglioramento, in particolare, dell'ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori;
b) condizioni di lavoro;
c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori;
d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro;
e) informazione e consultazione dei lavoratori;
f) rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione, fatto salvo il paragrafo 5;
g) condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità;
h) integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, fatto salvo l'articolo 150;
i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro;
j) lotta contro l'esclusione sociale;
k) modernizzazione dei regimi di protezione sociale, fatto salvo il disposto della lettera c).
omissis
5. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata.

(19)L'articolo 71 della Carta costituzionale dell'ONU prevede infatti la possibilità che il Consiglio Economico e Sociale possa consultare "organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrano nella sua competenza".

(20) L'ispirazione comune degli statuti, delle carte dei principi e dei progetti dei singoli raggruppamenti fa riferimento a valori di solidarietà e giustizia condivisi:
Sensibilizzare il Nord ai problemi del Sud del mondo attraverso l'educazione allo sviluppo.
Utilizzare adeguati metodi di raccolta fondi e realizzare azioni il cui effetto sia duraturo.
Rendere visibile un movimento mondiale di critica e opposizione al sistema di relazioni internazionali, perseguendo condizioni di pari opportunità tra popoli, generi e culture.
Sviluppare il pensiero democratico e tutelare i diritti umani, ponendo l'accento sul disarmo, la pace, la cooperazione allo sviluppo.
Non cedere all'illusione dello strumento militare quale risoluzione dei conflitti.
Rimuovere le cause del sottosviluppo, con particolare attenzione ai problemi dell'alimentazione, aumentando la produzione agricola.
Sostenere lo sviluppo di una società multi etnica.
Combattere lo sfruttamento minorile.
Eliminare le disparità tra i sessi, rafforzando il ruolo delle donne nel tessuto economico.
Tutelare le zone ecologicamente fragili, promuovendo l'uso non distruttivo delle risorse.

(21) Secondo quanto stabilito dall'art. 28 della legge 49 del 26.02.1987 ("Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo") e dal relativo Regolamento di esecuzione (artt. 30, 40 e 41),

(22) Elenco delle ONG riconosciute dal MAE: http://www.esteri.it/ita/4_28_66_75_249.asp

(23)http://www.istat.it/dati/catalogo/20060215_00/

(24)Base giuridica. L. n. 381/1991, l. n. 52/1996, d.l. n. 510/1996, l. n. 193/2000.

(25)Base giuridica. Art. 14 e seguenti del c.c.

(26)Base giuridica. Art. 2 l. n. 1159/1929 e art. 10 r.d. 28 febbraio 1930, n. 289.

(27)Base giuridica. L. n. 3818/1886, l. 15 aprile 1886 n. 3818.

(28)Base giuridica. Art. 39 e seguenti del c.c.

(29)Le cooperative sociali in Italia, ISTAT, anno 2003. http://www.istat.it/dati/catalogo/20061211_00/

(30)Istituzioni non profit in Italia, ISTAT, Rilevazione censuaria del 1999. Dati pubblicati il 7 ottobre 2002. http://www.istat.it/dati/catalogo/20020710_01/

(31)Il Regolamento (CE) n. 2004/2003 definisce lo statuto ed al finanziamento dei partiti politici a livello europeo. Un partito politico europeo, per essere riconosciuto e ottenere il finanziamento, deve essere rappresentato in almeno un quarto degli Stati membri da deputati al Parlamento europeo o da deputati dei parlamenti nazionali o delle assemblee regionali o, in alternativa, esso deve aver ottenuto in almeno un quarto degli Stati membri un minimo del 3% dei voti alle ultime elezioni europee. Con questo regolamento è stata formalizzata l’idea che i partiti europei, diversamente dal ruolo previsto per i partiti politici nelle Costituzioni nazionali, dove essi sono espressione della società civile e non emanazioni dello Stato, sono invece subordinati ai Trattati e alle istituzioni dell’Unione europea. E’ il Parlamento europeo che ne approva l'esistenza, che giudica se il loro Statuto è conforme o no ai principi e ai Trattati su cui si fonda l'Ue riguardo libertà, democrazia, diritti umani e norme di legge, e che può quindi, in casi limite, deciderne lo scioglimento. Occorre notare che il diritto di eliminare un partito per decisione di un Parlamento è una inquietante novità nella democrazia liberale.

(32) Relazione predisposta per l'intervento all'Ufficio del dibattito di Firenze del 28 aprile 2007

Nicola Forlani