martedì 12 ottobre 2010

Appello dei federalisti europei a Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico

"Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori
nei quali noi abbiamo creduto… Abbiano coscienza dei loro doveri
verso se stessi, verso la famiglia…, verso il paese,
si chiami Italia o si chiami Europa"
Giorgio Ambrosoli a sua moglie Annalori



Caro Segretario,


Come militanti del Movimento federalista europeo, fondato da Altiero Spinelli, e politicamente vicini al Partito democratico, guardiamo con preoccupazione all'incertezza sempre più evidente, denunciata ormai anche dalla stampa, riguardante l'identità culturale e il radicamento storico di un partito che intende perpetuare e rilanciare i valori del patto costituzionale con cui è nata la nostra Repubblica, raccogliendo attorno a questo obiettivo il maggior numero possibile di elettori. Il Pd non sembra infatti riflettere adeguatamente - anche se recenti iniziative appaiono come primi segnali di ripresa - né sul progetto che esso intende proporre per affermare la propria leadership, né sull'eredità politico-culturale di cui dovrebbero essere portatrici le sue componenti.

Come è noto, il Pd è nato nell'ottobre 2007 quale entità nuova, e dunque mirante a introdurre un fattore di trasformazione nel quadro politico nazionale, in parte in risposta all'affermarsi della cosiddetta seconda Repubblica e in parte per
completare il processo di adeguamento al venir meno delle contrapposizioni della guerra fredda, a seguito del tracollo del comunismo.

Il nuovo partito, richiamandosi a esperienze e modelli statunitensi e perpetuando al tempo stesso concetti di democrazia condivisi sia dagli eredi della Democrazia cristiana più sensibili alle istanze sociali, sia dalla cosiddetta democrazia laica e sia ancora dagli ex dirigenti e militanti del Partito comunista italiano, considerato nella sua originalità e specificità rispetto al regime sovietico, intendeva unire in un solo soggetto politico le forze convintamente eredi della Resistenza e dell'antifascismo per contrapporle più efficacemente ad uno schieramento moderato sostanzialmente populistico e ideologicamente composito, raccoltosi sotto la guida di un imprenditore fattosi uomo di Stato per un grumo di interessi decisamente lontani da quello collettivo.

Tale lungimirante disegno, maturato sulla felice esperienza di un dialogo fra laici e credenti impegnati politicamente in una delle realtà più significanti dell'Italia postbellica, introduceva sicuramente un fattore di chiarezza, di tutela dei principi di legalità e di coerente spinta riformatrice nel quadro politico, proponendosi in primo luogo di adeguare, nel rigoroso rispetto della Costituzione, gli schemi dell'esercizio del potere e della rappresentanza a quelli dei paesi occidentali di più sicura tradizione democratica, tutelando al tempo stesso le fasce meno favorite della popolazione, insieme ai valori egualitari radicati nella cultura dei partiti popolari.

Sulla base di tale impostazione ed affidandosi alle personalità culturalmente più partecipi di tale visione, non a caso ampiamente eredi delle concezioni di Altiero Spinelli, il Pd puntava nel concreto a garantire una seria e affidabile gestione di governo, seppur contrastata sia dal frammentario rivendicazionismo di residuali aggregazioni partitiche della sinistra, sia dalle persistenti conflittualità interne, dovute, oltre che a rivalità personali, alla incompleta conciliazione delle componenti che avevano dato vita al nuovo partito.

Per la verità, un'inadeguatezza di fondo risiedeva nel progetto politico stesso del Pd ove questo, nel dichiararsi forza alternativa allo schieramento promotore della seconda Repubblica, finiva per accreditare quest'ultimo come legittimo antagonista democratico, quando invece nella discesa in campo del cavaliere di Arcore emergevano da sempre elementi inaccettabili di distorsione dei principi, dei valori e della legalità dello Stato nato dalla costituzione repubblicana, dai quali elementi sarebbe stato indispensabile prima o poi liberarsi.

A ben vedere, il Partito democratico era chiamato a proporsi piuttosto come fattore di aggregazione di tutti gli eredi della Costituzione quarantottesca che non di cristallizzazione della contrapposizione fra due compagini, di cui una non risultava pienamente compatibile con lo spirito e i precetti della carta fondativa della Repubblica. Mancava infatti quell'idem sentire della cosa pubblica su cui, indipendentemente dalle differenziazioni partitiche, si fonda una statualità legittima e condivisa. Del resto, sarebbero stati i fatti, anche recenti, a dimostrare sia la necessità per il Pd di aggregare forze diverse purché animate da quell'idem sentire di fondo, sia l'opportunità che a porsi alla guida dello stesso schieramento moderato, convergendo verso il centro, siano elementi compatibili con le tradizioni repubblicane postbelliche, foss'anche separandosi nel tempo dal Partito democratico, che al processo di riaffermazione dei valori fondanti dell'Italia nata dall'antifascismo ha dato insostituibile impulso.

Purtroppo, a tale vocazione, ossia a farsi centro propulsivo del pieno adeguamento della democrazia italiana ai modelli occidentali di funzionamento - nel saldo contesto della carta costituzionale, vero atto di rifondazione dello stato italiano dopo la tragedia del fascismo - il Partito democratico, una volta estromesso (estromessosi?) dal governo, ha finito per rinunciare in misura via via crescente (salvo le recenti, incoraggianti iniziative ricordate in esordio, peraltro ancora incentrate su alleanze, schieramenti e riforma elettorale, piuttosto che su programmi e temi identitari).

Alla visione strategica si sono infatti man mano sostituiti: vuoi una politica del giorno per giorno, mirante ad assecondare gli occasionali orientamenti dell'elettorato, spesso valutati con logiche televisive e demoscopiche; vuoi l'aspirazione - peraltro non priva di giustificazioni, seppure, allo stato, non troppo pagante - a riavvicinarsi alle dinamiche europee di contrapposizione fra socialdemocrazia e conservatorismo liberal-liberistico; vuoi ancora il desiderio dei singoli leader del Pd di perpetuare le proprie posizioni di potere (tradizioni politico-culturali, elettorati consolidati, reti di sezioni e relative infrastrutture, realtà economiche collegate). E questo anche a costo di rilegittimare la dirigenza avversaria, rientrata ai posti di comando, ovvero di mettere ai margini ampie componenti dell'elettorato, indispensabili al raggiungimento della maggioranza del consenso, che era poi l'obiettivo originario su cui era stato costituito il partito stesso.

L'esempio e il messaggio di Altiero Spinelli. Una risorsa fondamentale

Oggettivamente, tra le ragioni di questa inadeguatezza di concezioni e progetti sta per molti aspetti la mancata attuazione di un completo ripensamento della propria storia da parte della componente ex comunista del Partito democratico, la quale ha finito per perpetuare l'antica renitenza ad una radicale revisione ideologica - da accompagnare all'elaborazione di un nuovo manifesto fondativo - già evidente nell'epoca di Enrico Berlinguer, malgrado la sostanziale adesione del partito alla democrazia repubblicana e gli orientamenti assunti dall'allora segretario del Pci. Una renitenza palesemente confermatasi allorché si preferì attendere il crollo del comunismo sovietico prima che il Partito mutasse il proprio nome. Tutt'oggi si può constatare una ritrosia a prendere le distanze in modo circostanziato dagli errori ripetuti fin troppo a lungo, sia in termini di adesione al comunismo in sé, sia di scelte politiche di fondo, fra cui, determinanti, non solo l'opposizione alle Comunità europee anni Cinquanta, ma anche al Sistema monetario europeo, alla fine degli anni Settanta, che avrebbe estromesso per lungo tempo il partito dalla gestione della politica italiana.

Allo stato dei fatti, un pur comprensibile senso di fedeltà alla propria militanza, la consapevolezza dei sacrifici compiuti e del contributo nel complesso offerto alla democrazia italiana, la resistenza psicologica a dissolvere il proprio patrimonio organizzativo e di dotazioni, un qualche grado di settarismo hanno contraddittoriamente concorso ad impedire l'elaborazione di un rinnovato progetto politico a carattere generale, in grado, tra l'altro, di valorizzare anche le tradizioni del socialismo democratico e riformista italiano, eredi della prima e della seconda Internazionale, che non possono essere dimenticate o cancellate dalla memoria del movimento progressista italiano. Appare davvero sconcertante, infatti, che grandi figure emblematiche, a partire da Garibaldi stesso, presidente del Congresso della pace, dei diritti dell'uomo e della federazione europea, riunitosi a Ginevra nel 1867, a Filippo Turati, a Giuseppe E. Modigliani, a Claudio Treves, a Eugenio Colorni, a Carlo Rosselli, a Pietro Nenni stesso e tanti altri risultino del tutto ignorate. E altrettanto può dirsi del pensiero laico e democratico, interpretato da Giuseppe Mazzini a Carlo Cattaneo, da Gaetano Salvemini a Francesco Saverio Nitti, da Ernesto Rossi a Ugo La Malfa e molti ancora, ai quali non viene tributato il dovuto riconoscimento. Eppure, senza una storia onorata e condivisa nessuna forza politica e nessuno stato può dirsi realmente tale.

Purtroppo, ciò che oggi emerge dal Pd è l'acrobatica conciliazione fra: a) le reticenze ex comuniste, che finiscono per creare il vuoto nel proprio passato, limitandosi al massimo a rivolgere seminascosti tributi di fedeltà a figure come quella di Togliatti, ovvero a inserire nel calderone dei propri riferimenti (vedasi un recente manifesto con cento santini) le personalità più diverse, da De Gasperi a Kennedy, a Gandhi, ma non, per dire, Spinelli o Colorni, ovvero ancora ad appropriarsi di mitologie mass-mediatiche di ascendenza democratico-statunitense, che avrebbero da sempre fatto premio, almeno fra i giovani della generazione postbellica, sulla venerazione dell'empireo stalinistico-sovietico; b) la crescente marginalità di ex democristiani di sinistra e di cattolici impegnati, convinti di condividere con gli antichi avversari - in fondo sempre ammirati, ma di fatto ampiamente estranei per formazione, esperienze, memorie, organizzazione - il senso di dedizione alla causa democratica, repubblicana e social-popolare; c) il protagonismo di chi rimane attaccato alla difesa della tenace tradizione reticente e del "patrimonio" accumulato nel tempo, a sua volta insidiato da chi invece preferirebbe una piena conversione al modello di partito democratico e di alternanza di fattezza statunitense, senza troppo riflettere sul proprio passato e senza troppo indagare sulla natura, che verrebbe da motteggiare senza molta esagerazione come demago-pluto-escortaico-mafionica, non meno che clerico-affaristico-mediasettica, dei propri principali antagonisti; d) l'aspirazione, in sé positiva, ma che rischia il giovanilismo, a rinnovare dirigenti e parole d'ordine puntando sul semplice rinnovamento anagrafico come generatore di superamento delle antiche cristallizzazioni e di più vasto consenso da parte del grande pubblico, malgrado il generale invecchiamento della popolazione e di riflesso dei cittadini votanti.

Ora, a noi sembra che la ricerca di un progetto generale e al tempo stesso l'affermazione di un radicamento storico della tradizione democratico-costituzionale nel nostro paese, che restano essenziali per emanciparsi dalla società dell'effimero e confrontarsi con le enormi urgenze del presente, vada effettuata in primo luogo attraverso la piena assimilazione tanto della proposta politico-culturale di Altiero Spinelli - la costruzione della federazione democratica europea (e dell'Italia europea in essa) - quanto della sua esperienza di militante, vissuta da precursore all'interno della vicenda storica dei movimenti popolari e antifascisti.

Giovane dirigente comunista incarcerato dal regime già nel '27 e mantenuto in reclusione fino al '43, il futuro protagonista del primo parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979 avrebbe maturato in carcere una profonda revisione dei fondamenti del marxismo e del comunismo per giungere a proporre, nell'ormai celebre Manifesto di Ventotene, scritto in sostanziale contrappunto con il Manifesto del 1848, la sostituzione del principio della lotta di classe con quello del superamento della sovranità assoluta degli stati e dell'instaurazione, con metodo costituente, della democrazia federale europea. Tale soluzione sarebbe stata in grado, come effettivamente dimostrato dall'esperienza storica, peraltro ancora in corso, di garantire la pace permanente, la libertà, lo sviluppo e il benessere dei lavoratori in maniera incomparabilmente maggiore rispetto al cosiddetto socialismo reale, o regime comunista che si voglia definirlo.

Senza entrare in mille dettagli, la partecipazione di Spinelli alla Resistenza europea, la fondazione, nell'agosto del '43, del Movimento federalista europeo assieme a personalità di altissima levatura dell'antifascismo, la sua decisa scelta di campo occidentale (ma sempre contraria ad eventuali progetti egemonici statunitensi) durante la guerra fredda, la sua dedizione infaticabile alla causa della federazione democratica europea, nonché - fatto notevole per tutta Europa, concordato con Enrico Berlinguer su proposta di Giorgio Amendola - la sua elezione come indipendente nelle liste del Pci, tanto a Roma e che a Strasburgo (con l'obiettivo di trasformare l'assemblea europea in una costituente, ma al tempo stesso di mettere al servizio della causa dell'Europa federale la notoria, innegabile dedizione dei comunisti italiani), descrivono un arco politico ed esistenziale esemplare. Una mirabile e sicura traiettoria che conferma la sussistenza di un filo conduttore virtuoso, sia pure con ritardi e consapevolezze diverse, all'interno del movimento operaio e democratico italiano, di cui non si può e non si deve restare dimentichi.

Non solo, giacché l'impegno per la creazione di istituzioni democratiche europee, con l'Italia in posizione trainante, ha costituito uno dei più importanti fattori di dialogo e di condivisione di obiettivi generali - si pensi alla collaborazione di Spinelli con De Gasperi, con Nenni, con Berlinguer - fra elementi di primo piano delle diverse forze politiche eredi della Resistenza. Tanto che si può affermare che il Partito democratico costituisca oggi il punto di riferimento e di incontro più naturale per chi provenga da quella storia e da quel comune sentire del futuro del proprio popolo, di tutti i popoli europei e del mondo intero, in vista del progresso della umanità e della persona, dell'uguaglianza e della pace, che costituisce la comune sostanza valoriale dei movimenti popolari del nostro paese e non solo di esso.

Nessuna società politica democratica, del resto, può vivere sulla semplice gestione dell'esistente, o sull'appagamento di occasionali istanze dell'elettorato, rinunciando a proporsi una pur sobria missione di carattere generale, che costituisca un bene, un fattore di progresso, per l'intero consorzio umano. Per il Manifesto di Ventotene, scritto insieme a Ernesto Rossi e in collaborazione con Eugenio Colorni - e non a caso instancabilmente valorizzato dall'attuale presidente della Repubblica - la federazione democratica europea costituisce infatti, in primo luogo ed eminentemente, un traguardo di superiore civiltà nella storia del mondo.

Ad onor del vero, va anche osservato che nell'ultimo Spinelli, il quale aveva pur difeso a spada tratta la validità e l'affidabilità della scelta europea del Pci, era subentrato nei confronti di quest'ultimo un senso di delusione per l'insufficienza dell'apporto fornito all'iniziativa costituente lanciata dal nostro "Ulisse" (questo il suo significativo nome di battaglia, tra omerico e dantesco) e mirante all'instaurazione di una completa Unione europea, poi parzialmente istituita con il trattato di Maastricht. Colui che in sede europea viene ufficialmente annoverato fra i Padri dell'Europa lamentava che il Pci inclinasse semmai ad un proprio cauto inserimento nella "normalità" della socialdemocrazia europea, piuttosto che ad abbracciare decisamente la concezione federalista, ovvero quel pensiero politico compiuto elaborato a Ventotene in alternativa al marxismo e reputato in grado di produrre effetti ben più concretamente rivoluzionari di esso.

Sarà stata pure un'ingenuità dell'antico dirigente della Fgci formatosi alla scuola leninista, ma a suo avviso il Pci non riusciva a capire di dover finalmente dedicare le sue energie alla nuova causa, profeticamente individuata da un comunista come lui già negli anni più duri del fascismo e reputata tale da dover divenire obiettivo politico primario di un movimento politico pienamente democratico: un movimento desideroso, beninteso, non già di adattarsi al "gioco" dell'alternanza in un contesto nazionale statico, bensì di dar vita al salto di civiltà, all'innovazione qualitativamente decisiva cui si è accennato poco più sopra. Il Pci continuava invece a oscillare ossessivamente fra passato e presente, fra Est e Ovest, fra realtà concreta e mitologie, fra sentirsi dentro e sentirsi fuori, abdicando al dovere di darsi una visione generale e un progetto politico di adeguato respiro.

Personalmente restiamo convinti che la "provocazione" di Spinelli, pur venata di un certo solipsismo proprio dei precursori, resti oggi più attuale che mai, soprattutto tenendo conto che nell'attuale fase di implosione-decostruzione del sistema politico della cosiddetta seconda Repubblica il Partito democratico, insieme alle forze politiche legate all'eredità costituzionale, è chiamato precisamente a proporsi un disegno politico di grande portata e non soltanto a prospettare una normale alternanza, in vista della soluzione di singoli problemi affrontabili nello spazio di una legislatura.

Un patto con gli europei

Ebbene, tale disegno politico complessivo si incentra proprio sul compimento del progetto di unificazione federale dell'Europa da parte dei paesi e delle forze politiche disposti a dar rappresentanza e istituzioni al popolo costituzionale europeo. E questo non già o non soltanto per la suggestione dell'obiettivo in sé, oggettivamente virtuoso e affascinante, bensì anche per la consapevolezza, tutta spinelliana, ma radicata già nel Risorgimento, dell'identificazione fra interesse nazionale italiano ed edificazione della democrazia federale europea, nonché della vocazione italiana ad esercitare un ruolo di mediazione e di impulso in tale direzione.

Anche le recenti vicende della crisi finanziaria internazionale dimostrano quanto abbia giovato alla solidità economica del nostro paese la sussistenza di un quadro istituzionale europeo, mentre la pressione della globalizzazione sui sistemi produttivi lascia temere un inasprimento delle condizioni dei lavoratori, ove non sussista un'adeguata area di statualità in grado di tutelare i settori più minacciati della società, assicurando al tempo stesso alle imprese l'efficienza complessiva dell'ambiente in cui effettuano gli investimenti, al fine di controbilanciare i vantaggi delle delocalizzazioni e fronteggiare la concorrenza internazionale. Non meno importante è promuovere tale area di statualità per evitare, come già succede nel nostro paese, che le vere o presunte esigenze della competizione internazionale impongano un'egemonia dei venditori-produttori sui consumatori-lavoratori tale da protrarre eccessivamente la giornata lavorativa o penalizzare la natalità e le famiglie, abbassando i salari dei giovani e la protezione sociale, nonché addirittura minacciando di licenziamento le donne in maternità.

Ora, che questi obiettivi siano perseguibili in un quadro puramente nazionale è illusione denunciata da tempo ed evidente ai più, al di là della constatazione che i maggiori paesi europei sono riusciti a tutelarsi parzialmente dagli effetti socialmente devastanti della globalizzazione. Costoro riescono a difendersi meglio degli altri grazie alla loro condizione di forza relativa ed anche alla sussistenza di un mercato unico europeo considerato spesso come "giardino di casa", ma non certo perché possano permettersi di aspirare ad un ritorno alla sovranità assoluta, come dimostrano anche le recenti concessioni in vista della creazione di un sistema europeo di gestione-controllo della finanza e dell'economia, a dispetto di iniziali affermazioni contrarie, pronunciate all'insegna del virtuosismo nazionale.

Altrettanto evidente risulta dunque il fatto che il nostro paese, certo non privo di elementi di debolezza strutturale, potrà garantirsi da nuove e forse più imponenti crisi economico-finanziarie, oltre che da attacchi allo stato sociale, solo se l'Unione europea - o almeno il suo nucleo più coerente, di cui l'Italia deve essere assolutamente partecipe - sarà in grado di proseguire verso una reale unione economica, da affiancare a quella monetaria, che sia dotata degli strumenti politico-istituzionali non soltanto di difesa dell'esistente, ma anche di rilancio degli investimenti, della ricerca e delle innovazioni tecnologiche. Una Unione, in altre parole, abilitata ad esercitare un ruolo attivo nei settori strategici, se non a proporre un modello di società della conoscenza, della produzione diffusa, della tutela della persona, da imitare nel contesto internazionale.

Per ottenere questo, tuttavia, vale a dire perché sia possibile stringere un patto di natura federale fra i contraenti, è assolutamente indispensabile che sussista non soltanto la determinazione di forze politiche consapevoli e all'altezza del compito, ma anche un rapporto di fiducia fra i detti contraenti, un foedus fondato sul rispetto rigoroso della legalità, delle regole stabilite e delle procedure concordate, oltre che sulla condivisione delle concezioni della democrazia. Altrettanto evidente risulta a tale riguardo che l'Italia berlusconiana, rivelatasi ogni giorno di più nella sua natura tanto affaristico-illegale quanto inquinata da insopportabili conflitti di interesse e da insidie al potere costituzionale della magistratura, se non alla Costituzione in sé, non risponde alle esigenze elementari in base alle quali i potenziali, indispensabili partner del processo federale siano disponibili a cedere ulteriori poteri sovrani ad istituzioni comuni. Anzi, ne costituisce un oggettivo, rilevantissimo impedimento.

Il che, pur tenendo conto degli immancabili egoismi particolaristici di ogni società nazionale, risulta comprensibile e giustificato: l'eventuale sensazione di un peggioramento delle condizioni di legalità del sistema democratico, a questo punto divenuto largamente federale, e pertanto meno controllabile da un singolo paese, indurrebbe una crescente disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni dell'Unione e della democrazia in quanto tale, con effetti che la nostra quotidiana esperienza percepisce ormai, nel nostro ambito, come inaccettabili e devastanti.

L'Europa, quindi, non può più valere per il nostro paese come puro condizionamento esterno, in grado di indurre comportamenti virtuosi all'interno. Al contrario deve trasformarsi nell'impegno attivo e propositivo, in forza del quale il quadro nazionale viene parallelamente e consapevolmente trasformato in fattore esemplarmente trainante della comune costruzione, oggi sempre più necessaria per poter agire come interlocutori del resto del mondo.

Si può peraltro riconoscere che l'attuale gestione della finanza pubblica italiana, con il presumibile concorso della Lega, abbia evitato la degenerazione dei conti del paese che si era profilata invece nei precedenti governi della destra, quando l'euro e l'Europa stessa venivano denigrati e additati come la causa dei mali socio-economici. Tuttavia l'esercizio del rigore, stante l'impossibilità, in regime di euro (ovvero di condizionamento esterno), di interventi a carattere inflazionistico ai fini di riequilibrio delle partite di bilancio in funzione dell'occupazione o degli investimenti, è stato sostanzialmente eseguito mediante tagli alla spesa spesso e volentieri a carico dei settori maggiormente trainanti e produttivi, piuttosto che con una dolorosa azione di trasferimento di risorse da settori parassitari a produttivi. Né di certo è stato perseguito un implacabile, ma al tempo stesso accorto, contenimento dell'evasione fiscale, o si è proceduto alla liberalizzazione (non dimentichiamo certo in proposito il cosiddetto "pacchetto Bersani") di ambiti protetti da legislazioni corporative. Un'azione questa che è stata compiuta invece da altri paesi - in primis nel campo fondamentale del rifinanziamento dell'istruzione e della ricerca, malgrado la crisi - e che risulterebbe oltretutto meno onerosa se svolta in un contesto di rilancio degli investimenti a livello dell'Unione.

Si impone in sostanza, da parte del nostro paese, l'urgenza di un "patto con gli europei", grazie al quale il progresso dell'integrazione verrebbe scambiato con: a) un coraggioso riassetto della finanza pubblica, unito al rilancio della produttività e degli investimenti; b) un impegno ferreo a emendare la penisola dalle note deficienze organizzative e dagli aspetti inaccettabili di illegalità e criminalità - ivi compresa la presenza di pregiudicati e indagati, talvolta addirittura per mafia, nel parlamento, o nel governo - che ancora impediscono alla società italiana di essere accolta a pieno titolo nell'avanguardia del mondo occidentale e di trarne i vantaggi conseguenti, per sé e per gli altri paesi dell'Unione.

A fronte dell'attuale continuo, autolesionistico e introflesso battibecco personalistico tra le forze politiche nazionali, tale impegno di riscatto nazionale, di natura risorgimentale e neoresistenziale, compiuto nella coincidenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e offerto all'intera Europa, appare l'unico in grado di conferire al soggetto politico che intenda proporlo e perseguirlo l'autorevolezza e la giustificazione per agire con determinazione assoluta sulle attuali manchevolezze del paese, in vista del compimento della costruzione della democrazia italiana nel momento stesso in cui essa si rende protagonista dell'indispensabile raggiungimento dell'unità politica europea. L'esperienza dimostra del resto come gli italiani, a suo tempo chiamati a corrispondere la cosiddetta tassa per l'Europa pur di aderire alla moneta unica, siano disponibili ai sacrifici e al disinteresse, ove collocati in una prospettiva generosa e sanamente patriottica.

Ma tutto ciò è solo un lato della medaglia. L'altro aspetto, più lusinghiero e incoraggiante, è che i dirigenti del nostro paese, nei decenni del dopoguerra, hanno saputo svolgere un accorto lavoro di promozione della costruzione europea e di mediazione fra gli interlocutori maggiori, rivelatosi in numerose occasioni come indispensabile e decisivo. Si pensi per esempio, al di là del ricordato contributo di Spinelli, alla lontana conferenza di Messina del 1955, o alla determinazione con cui i governi sottoscrissero i trattati comunitari malgrado le opposizioni degli ambienti economico-industriali, o al Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985, o alle vicende del trattato di Unione politica e di Unione economico-monetaria (trattato di Maastricht) e si avrà la conferma di tale preziosissimo apporto, volentieri riconosciuto anche in sede europea.

Per ottenere tali risultati, tuttavia, era indispensabile una profonda conoscenza dei principi, dei meccanismi e delle logiche della costruzione europea, laddove oggi sussiste una profonda indifferenza verso tali aspetti, come si può constatare dall'assenza di riferimenti alla Ue (con cui pure condividiamo una moneta e un mercato unico e tanto altro ancora) negli interventi programmatici, anche recentissimi, di tanti leader politici; dai marchiani errori comparsi sulla più accreditata stampa nazionale in tema di Unione europea, ripetutamente confusa con il Consiglio d'Europa; o dall'assenza di un dibattito realistico su tematiche capitali come gli effetti dell'allargamento dell'Ue. Soltanto a titolo di esempio, si dibatte all'infinito, seppur confusamente, sul federalismo interno, con relative minacce di separatismo, ignorando che nel frattempo la moltiplicazione di stati presunti sovrani - argomento fin troppo spinelliano - nei Balcani o altrove finisce per deformare sempre di più gli assetti istituzionali dell'Unione, creando uno squilibrio insidiosissimo fra Europa reale ed Europa formale.

Se non fosse stato per l'allarme lanciato dalla corte costituzionale tedesca (e ignorato in Italia) in occasione della ratifica del trattato di Lisbona, chi si sarebbe accorto che il peso specifico del voto di un cittadino italiano o tedesco per il Parlamento europeo vale incredibilmente meno di quello di recenti adepti all'Ue, peraltro prossimi ad essere raggiunti, con ulteriore inaccettabile deformazione, da un vero polverio di altre nazionalità? E non è questa una necessaria, indispensabile riflessione a tutela dei legittimi interessi nazionali, oltre che dell'irrinunciabile principio democratico "one man, one vote"? O si preferisce continuare con il principio "tanti stati, tanti posti di comando", al punto che quasi quasi converrebbe a tutti che la Padania, o il Mezzogiorno, o tutte le regioni del Belpaese diventassero indipendenti? Per lo meno, i posti riservati agli italiani si moltiplicherebbero, insieme al diritto di veto su questioni fondamentali dell'Unione, tuttora concesso dal trattato di Lisbona ai singoli stati e staterelli.

Insomma, a volersene rendere conto, e a parlarne nei programmi politici, forse l'occasione per un serio dibattito sulla centralità della questione Europa e per vigorose iniziative politiche al riguardo ci starebbe sicuramente, magari anche chiedendo notizie sul funzionamento della nuovissima struttura della politica estera europea e del ruolo italiano in essa, che risulta evidentemente meno avvincente (provincialismo?, sì, come minimo) rispetto a qualunque minuzia della cronaca politica interna .

In breve, i temi così prospettati e le esigenze generali della società italiana, componente del nucleo fondante dell'Unione europea, richiedono l'emergere di una forza politica determinata a non fare del consenso di breve periodo il primo dei propri obiettivi, in vista dell'occupazione del potere e del sottopotere, bensì a proporsi come fautrice di trasformazioni di lungo periodo e di illuminata emancipazione sociale e culturale, come è proprio dell'identità migliore e più profonda di tutti i movimenti popolari di ispirazione democratica.

Non c'è dubbio che le violenze epocali della storia novecentesca, teatro delle ambizioni aggressive delle statualità nazionali, abbiano indotto anche nel movimento operaio reazioni eccessive e totalitarie, inasprendo gli animi delle masse e suggerendo soluzioni implacabili come risposta inevitabile alle conflittualità perseguite da governi che non esitavano a sacrificare milioni di vite umane per i propri disegni egemonici. Oggi è tuttavia venuto il momento di guardare con serenità ed anche spirito di autocritica a quanto accaduto, valorizzando al tempo stesso il patrimonio di sacrifici, valori, elaborazioni intellettuali, spirito di pace e tensioni di emancipazione espressi dai movimenti democratici, proponendo ai giovani e a tutta l'opinione pubblica l'indispensabilità di una visione di progresso universale che per tanti aspetti passa più che mai per le prospettive indicate dal precursore Spinelli, uno Spinelli per parte sua sempre disponibile alla collaborazione con l'antifascismo laico e i cattolici "adulti", cui tanto si deve nella vicenda democratica del nostro paese.

Tale progetto deve essere perseguito in maniera realistica e concreta, affermando, in primo luogo, la centralità della cultura, della scienza e della legalità all'interno di ogni reale azione di progresso, ma anche, aspetto non meno importante, valorizzando le pubbliche istituzioni (locali, nazionali e sovranazionali!), quali sedi di tutela dei diritti di cittadinanza (istruzione diffusa, lavoro, assistenza, previdenza), nonché di intervento per investimenti di interesse collettivo. Lo stato democratico, ai suoi diversi livelli, non va inteso infatti come apparato sovrastante la società, bensì come luogo di espressione della libertà e dello spirito di comunità. Tutti questi elementi costituiscono un requisito essenziale per assicurare gli effetti positivi stessi dell'economia di mercato e dell'iniziativa economica privata - ormai estesa all'intera dimensione mondiale - senza per questo subordinare l'uomo e la società alla ricerca del profitto come unico valore, al dominio straripante di gruppi monopolistici ed entità sovrane, alle discrezionalità incondizionate dei detentori del capitale.

Un programma per l'Italia europea

Su queste basi potrà pertanto essere elaborato un programma politico, impostato a nostro avviso sui seguenti punti prioritari.

Sul piano istituzionale europeo, è indispensabile promuovere, coinvolgendo università, studiosi, opinionisti, un'approfondita ricognizione sull'attuale assetto successivo a Lisbona, al fine di giungere ad una chiara definizione, in primo luogo sul piano dei principi giuridici, della natura di tale assetto, commisto com'è di elementi intergovernativi, funzionalisti e federalisti, e se esso possa essere accettabile nel lungo periodo, o necessiti sollecite riforme, in grado di assicurare una salda legittimità a esecutivo, legislativo e giudiziario in primo luogo. Che credibilità avrà, a titolo di esempio, una Corte di Giustizia formata da un giudice per ogni paese membro, al punto che fra breve la comparabilmente modesta realtà dell'Europa ex comunista vanterà una maggioranza di magistrati al suo interno? Approfondimenti da noi promossi hanno sottolineato la non sostenibilità della situazione. E non si corre il rischio, ancora, che il Consiglio rivendichi una maggiore legittimità democratica rispetto al Parlamento europeo, visto che il primo tutela il rapporto rappresentanza-popolazione meglio del secondo, pur escludendo dal proprio seno le opposizioni? Di sicuro il suo attuale presidente lo definisce già come il reale governo economico dell'Ue. In breve, continuare a compiacersi della pur arguta battuta per cui l'Ue sarebbe un ermafrodito, e come tale bisogna tenerselo, non convince più nemmeno gli autori di quel motto di spirito.

Si conferma insomma l'urgenza di una riflessione politica e giuridica adeguata, da compiere con il concorso di tutte le forze politiche e intellettuali dell'Ue, nel contesto di uno spazio pubblico europeo, che è finalmente ora di costruire con adeguati strumenti di dibattito, comunicazione e pubblicizzazione, grazie anche al ricorso alle nuove tecnologie.

Sul piano economico, solo una grande serietà e determinazione dei componenti l'Unione può consentire, in primo luogo, l'accreditamento della proposta avanzata dalla Commissione europea, e respinta dagli stati maggiori, in vista dell'aumento delle risorse proprie dell'Ue mediante l'introduzione di prelievi fiscali europei. Inoltre, un piano europeo di investimenti per rilanciare l’economia e favorire la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile può essere finanziato con l’emissione di Union bonds, come è stato più volte proposto in passato ed è stato di recente sostenuto anche dal Presidente Barroso nel suo Rapporto sullo stato dell’Unione. D’altra parte, anche la recente decisione di Ecofin di istituire una sessione di bilancio condensata nel semestre europeo, pur utile nella prospettiva di un miglior coordinamento delle politiche fiscali degli stati membri, non è certamente in grado di superare i limiti del metodo di coordinamento, già più volte verificati in passato. In effetti, in assenza di un potere europeo, ogni stato avrà comunque convenienza a comportarsi da free rider e il coordinamento sarà effettivo soltanto nella misura, del tutto ipotetica, in cui vi sarà convergenza delle ragion di stato - ovvero degli interessi - dei diversi paesi.

In generale, va rilevato che il deficit democratico dell’Europa ha pesanti riflessi sulla concreta possibilità di attuare in tempi ragionevoli una politica fiscale comune, mirante a fronteggiare situazioni caratterizzate da esigenze di immediatezza ed emergenza, tra cui il sostegno a competitività e sviluppo e il contrasto delle crisi economico-finanziarie. Specie dopo l’ultimo allargamento a 27 stati, è anacronistico che permanga la regola dell’unanimità in materia fiscale. Dieci anni or sono, paventandone le conseguenze, la Commissione propose l’introduzione del voto a maggioranza qualificata almeno per le materie concernenti la previdenza ed il fisco che avessero un impatto evidente sulla realizzazione del mercato unico, ma la proposta non è stata accolta né risulta che sia di nuovo all'esame.
Per questo motivo, le direttive europee in materia fiscale hanno tempi di gestazione che ne attenuano notevolmente l’efficacia. Basti pensare, soltanto per fare alcuni esempi, alla direttiva sulla tassazione dei redditi del risparmio (diretta ad armonizzarne il sistema di tassazione e a contrastare la consistente evasione transnazionale), che fu inserita nel cosiddetto “Pacchetto Monti” del 1996: varata soltanto nel 2003, contiene una serie di modifiche che ne hanno indebolito la portata, causa il compromesso imposto da una esigua minoranza di stati membri che l'avevano osteggiata, vedendo minacciati i propri interessi nazionali. Eppure Monti stesso, in anni ormai lontani, aveva messo in guardia contro gli effetti socialmente insidiosi della concorrenza fra gli stati, dediti ad attrarre capitali offrendo condizioni fiscalmente competitive: la retribuzione del lavoro, specialmente di quello meno qualificato, avrebbe raggiunto livelli inaccettabili. E si pensi anche alla proposta avanzata dalla Commissione per introdurre una Common Consolidated Corporate Tax Base (la cosiddetta CCCTB, diretta a creare un regime semplice ed uniforme di tassazione delle imprese che operano in ambito europeo), che risale al 2001 ed è tuttora in fase istruttoria nel tentativo di individuare una soluzione gradita alla totalità dei governi nazionali.

Nell’attesa della piena realizzazione dell’Europa federale, che risolverebbe in radice anche questo ordine di problemi, l’Italia dovrebbe farsi promotrice di una modifica dell’attuale sistema di voto delle norme (siano esse direttive o regolamenti) a contenuto fiscale, sostenendo l’esigenza di introdurre meccanismi basati sulla regola della maggioranza, qualificata dal riferimento al numero dei cittadini di ciascuno stato membro, che si avvicinino quanto più possibile al principio “one man – one vote”, assicurando almeno tendenzialmente il rispetto del fondamentale principio del consenso al tributo (“no taxation without representation”), pilastro di ogni democrazia degna di questo nome.

Altrettanto indispensabile risulta procedere ad una rivalutazione della proposta monnettiana dell'Euratom per la gestione di una comune politica energetica, ovvero delle iniziative assunte da Spinelli, commissario europeo tra il '70 e il '75, in tema di tecnologie e ricerca, di promozione di un'industria aeronautica europea, di creazione di una politica comune dell'ambiente e di una legislazione comune in materia di: imprese (modello unico di impresa europea, euro-corporation), sicurezza sul lavoro, standard di fabbricazione comuni). Nel complesso, è stato osservato che circa un 60% delle proposte di Spinelli è già stato adottato in sede Ue, confermando la preveggenza e la visione del leader federalista, che già da lungo tempo sarebbe stato opportuno aver fatto proprie.

Appare dunque chiaro, a nostro avviso, che è necessario avanzare al più presto verso una forma federale di elaborazione e gestione delle più importanti politiche dell'Ue, fosse pure a costo di creare un nucleo ristretto di paesi disposti a bruciare le tappe, partendo dalla realtà dell'Eurogruppo.

In questo ambito, un'azione svolta dall'Italia, anche per dare all'Europa una voce maggiore in campo internazionale, andrebbe intensificata con sensibilità, costanza di orientamenti e dialogo permanente con i membri dell'Unione, assicurando un ruolo di mediazione e di impulso.

Tra i grandi obiettivi che in questo contesto una forza politica, purché dotata di un patrimonio di idee e una carica ideale, è chiamata a perseguire ci sono in egual misura: la soluzione della questione palestinese grazie alla garanzia dell'Ue; l'organizzazione di uno spazio euromediterraneo in cui inserire, agendo a livello Ue, Consiglio d'Europa, Nato, Onu, anche i rapporti con la Russia e la Turchia; la costruzione di una politica estera e di sicurezza della Ue, comprendendo in essa anche il tema dell'esercito europeo; la presenza della Ue in quanto tale all'interno delle organizzazioni internazionali; la lotta alla fame nel mondo e il decollo delle aree sottosviluppate; la tutela degli equilibri ecologici; l'esplorazione dello spazio.

Quanto alle riforme interne al nostro paese e al metodo con cui attuarle, esse andranno accompagnate da un preventivo, sistematico confronto con quanto disposto nei paesi più rilevanti dell'Unione, ai quali ci uniscono, come si è detto, la moneta, il mercato unico, le normative comunitarie, il comune assetto istituzionale, etc. Prescindere da questo ambito significa mancare dei riferimenti indispensabili per un'efficace azione legislativa, quand'anche fosse caratterizzata da dissenso, a questo punto consapevole, ma pur sempre sottoposto alle comuni normative, rispetto ai partner.

In generale, detto un po' scherzosamente, sussiste la fondata impressione - corroborata da dati recenti di natura economica, nonché da pur contestati ammonimenti della Banca d'Italia - che gli europei, volendo evitare di diventare troppo tedeschi, debbano comunque rassegnarsi a diventare più tedeschi di quanto siano ora. Vale a dire, superato lo sconcerto, che appare indispensabile procedere ad una attenta valutazione dei criteri che hanno consentito al più grande paese europeo, grande sia in termini demografici che economici, di affrontare con maggior successo degli altri le difficoltà degli ultimi anni, tanto sul piano produttivo che su quello sociale. L'obiettivo dovrà essere di recepire seppur criticamente tali criteri, ispirati all'economia sociale di mercato, tanto in sede Ue che nazionale. Al tempo stesso varrà la pena di restare in guardia dalle tentazioni del "beggar-thy-neighbour", da taluni rilevate in campo industriale e sindacale in riferimento a certo solipsismo politico-culturale della Repubblica Federale nei confronti del resto dell'Europa. Un compito, in altre parole, che richiede un'estrema capacità di riflessione, mediazione ed intervento.

In tale contesto, appare inoltre raccomandabile valutare con i partner il grado di equilibrio ottimale fra intervento pubblico a vario titolo, sia all'interno degli stati, sia dell'Unione, e intrapresa privata. Non è detto che la pura liberalizzazione, peraltro spesso non attuata dagli altri stati membri sul piano interno, sia l'unico strumento di dinamicizzazione della società e dell'economia, oltre che di tutela dell'occupazione e del lavoro. Molto si può attendere da programmi di investimento promossi dalla Ue stessa nei settori strategici, sia pure in un contesto di concorrenza fra imprese, ovvero da una vera e propria politica industriale, sempre auspicata ma mai istituita.

Al tempo stesso la dovuta attenzione deve essere riservata anche ad un altro aspetto costitutivo della costruzione comunitaria: quello della garanzia di un sviluppo equilibrato dell'insieme dell'Unione, evitando situazioni monopolistiche ed anche eccessive concentrazioni produttive in singole aree. A titolo di esempio e come spunto di utile riflessione tutto da discutere, sia sul piano industriale che sindacale: mentre Francia e Germania hanno di fatto mantenuto in vita le proprie imprese automobilistiche, il nostro paese ha dovuto se non rinunciarci, almeno fonderle con un grande gruppo statunitense (evoluzione, quest'ultima, che conferma i legami della società italiana con quella statunitense, ma meritevole di notevoli approfondimenti sia sul piano interno dell'Ue, sia in merito al rapporto Usa-Ue). Ebbene, è possibile immaginare uno sviluppo che non cancelli le specificità nazionali, o di singole aree, mantenendo in accettabile equilibrio ragioni della concorrenza e aspirazioni alla continuità di potenzialità produttive?

Un aspetto connesso, da non sottovalutare, è che i nostri maggiori interlocutori europei, quando decidono, come hanno fatto, di aumentare la spesa per istruzione e ricerca in un momento di crisi, si attendono di uscire con un quid di vantaggio rispetto agli altri nel momento della ripresa: ciò significa, realisticamente, che attorno a questi temi si giocano notevoli interessi nazionali, non abbastanza considerati nella loro rilevanza, e che andrebbero affrontati soprattutto con un maggior grado di integrazione, ma anche di responsabilizzazione interna. Appare evidente, fra l'altro, che privarsi di centri di ricerca e di imprese di primaria importanza depaupera le singole società di saperi, di opportunità per i giovani e persino di motivazioni a dotarsi di un adeguato livello di istruzione professionale ed universitaria.

Fra gli obiettivi del Partito democratico dovrebbe figurare inoltre un grande sforzo nazionale per la riduzione del debito pubblico (che di per sé riduce di alcuni punti percentuali le potenzialità di ripresa), da attuarsi soprattutto mediante una puntuale, metodica razionalizzazione, efficientizzazione e moralizzazione della macchina tanto statale che produttiva, nonché dei servizi in generale, motivando e responsabilizzando l'intero corpo sociale, piuttosto che con semplice dirigismo contabile, spesso incline a complicare procedure di spesa e apparati di controllo.

Passando oltre, in tema di "patto con gli europei", per un verso va sollecitata una normativa europea, ancor oggi insussistente, al fine del perseguimento della criminalità organizzata, avvalendosi delle esperienze acquisite dalla magistratura e dalla legislazione italiana nella lotta contro la mafia; per un altro verso, l'Italia dovrebbe almeno recepire, cosa che non ha ancora fatto, le normative europee per la confisca all'estero dei beni esportati dalle organizzazioni criminali, come ha recentemente denunciato la commissaria Reding; per un altro ancora, sarebbe auspicabile consentire ai partner una ricognizione profonda del caso italiano e l'individuazione di strumenti, anche di tipo sovranazionale, per la repressione di tali fenomeni, che coinvolgono problematiche non di pura valenza giudiziaria, ma anche, presumibilmente, di intelligence da parte dei servizi di sicurezza di singoli paesi (nulla di male ci sarebbe ad istituire una figura di controllore europeo dei fenomeni mafiosi). Nel "patto con gli europei", che consentirebbe del resto un incremento degli investimenti nel nostro paese, andranno anche previsti impegni come quelli per il pagamento in tempo debito delle fatture, per il contenimento dell'economia sommersa e dell'evasione fiscale, per il controllo sull'esportazione di capitali, etc.

Altre tematiche, dalla sanità alla previdenza sociale, al sistema pensionistico, alla formazione scolastica e professionale vanno affrontate con una chiara visione europea.

Caro Segretario,

nel concludere questo nostro appello, sottolineiamo che l'attuale carenza di iniziative di respiro europeo da parte dei leader dei maggiori paesi dell'Ue esige un sovrappiù di impegno da parte del nostro e dal Pd in particolare, il quale, sia pure sul piano simbolico, che non è mai trascurabile, farebbe bene a inserire nelle proprie insegne, al momento piattamente nazionali, almeno un accenno grafico ai colori dell'Unione europea.

Quanto ad Altiero Spinelli, recenti sviluppi all'interno del Parlamento europeo registrano lo sviluppo di aggregazioni e proposte politiche direttamente ispirate al suo messaggio e al suo esempio. Sarebbe a dir poco auspicabile che il Pd, invece di restare scavalcato, raccogliesse con grande risalto l'eredità dell'antico confinato antifascista di Ventotene: diventerebbe in questo modo il primo grande partito italiano, e presumibilmente dell'Unione, a fare dell'obiettivo della federazione democratica europea il suo fattore fondativo. Un obiettivo profondamente innovatore ed epocale al tempo stesso, per il suo radicamento di lungo periodo nella storia dei movimenti popolari e per la prospettiva offerta di un miglioramento decisivo della civiltà umana.

Restiamo al tempo stesso profondamente convinti che il progetto dell'Italia europea, profondamente responsabilizzante, contribuirà in modo decisivo a fronteggiare i pericoli di separatismo e di frantumazione del tessuto connettivo interno del paese provocati dagli egoistici, torbidi e ciecamente introflessi conflitti di interessi particolaristici e di potere personale che hanno caratterizzato questi anni da dimenticare.

lunedì 10 maggio 2010

Per un'Unione europea autenticamente federale

Ordine del Giorno approvato all'unanimità dal Consiglio Comunale di Lanuvio il 7 maggio 2010

Oggetto: necessità di una Unione europea autenticamente federale per la realizzazione della pace, della libertà, della giustizia sociale e di un sistema ecologicamente sostenibile in un mondo sempre più interdipendente. Il contributo delle realtà locali al compimento della prima democrazia sovranazionale.
Considerato
- che il 9 maggio 2010 ricorreranno 60 anni dalla "Dichiarazione Schuman", con cui Francia e Germania diedero vita a un'iniziativa aperta a tutti ma decisa a superare l'incapacità del Consiglio d'Europa e ad avviare la costruzione di istituzioni europee indipendenti e sovranazionali;
Sottolineando
- che l'obiettivo esplicito contenuto nella Dichiarazione, cioè la creazione di una compiuta Federazione degli Stati membri dell'Unione europea, non è stato ancora raggiunto e resta più che mai attuale;
- che la conclusione del processo di riforma dei Trattati, con la difficoltosa ratifica ed entrata in vigore del Trattato di Lisbona tra i 27 Stati membri, è coincisa con una profonda crisi finanziaria ed economica di portata globale, che sta mettendo in luce le insufficienze strutturali dell'Unione Europea;
Il Consiglio comunale impegna il Sindaco e la Giunta a:
- farsi portatori del presente O.d.G. e dei contenuti ad esso legati presso il Governo italiano, affinché l'Italia si faccia promotrice in prima linea di iniziative volte a superare le criticità intergovernative che finora hanno impedito di realizzare l'unica soluzione efficace e democratica dei problemi europei: la costituzione di Unione europea su basi autenticamente federali;
- farsi portatori del presente O.d.G. presso i Parlamentari europei eletti nella circoscrizione cui appartiene il Comune;
- patrocinare tutte le iniziative di carattere formativo, culturale e politico che abbiano a loro oggetto specifico la proposta di creare (almeno) un nucleo di Unione realmente federale tra i Paesi europei, a partire da quegli Stati che condividono, oltre ai medesimi valori fondativi, la stessa moneta.

martedì 4 maggio 2010

Lanuvio per la Federazione europea

In occasione del 60° anniversario della Dichiarazione Schuman

Il prossimo 9 maggio ricorre il 60esimo anniversario della “Dichiarazione Schuman”, da cui nacque la Comunità Europea. Da quel 9 maggio del 1950 sono stati compiuti passi da gigante, fino all’Euro, ma di fatto, ad oggi, la Comunità Europea non ha ancora raggiunto l’obiettivo di fondare una vera e propria Federazione, che impronti una politica estera di sicurezza e di difesa unica, che garantisca il risparmio di risorse pubbliche e l’incremento di efficienza per i membri europei.

Per sottolineare l’importanza di questo tema, su proposta dell’Assessore alle politiche europee Nicola Forlani, la città di Lanuvio ha quindi organizzato un Consiglio comunale, aperto alla cittadinanza, per venerdì 7 maggio alle 16:30.

L’intento dell’incontro, realizzato in collaborazione con il “Movimento Federalista Europeo” di Campoleone e con il patrocinio della “Rappresentanza in Italia della Commissione Europea”, è quello di far divenire la Giunta lanuvina portatrice della tematica in questione presso il Governo italiano e i Parlamentari europei eletti nella circoscrizione a cui appartiene Lanuvio, affinché la nostra Penisola si faccia promotrice in prima linea di iniziative volte alla costituzione di un’Unione Europea fondata su basi autenticamente federali.

L’Ordine del giorno proposto da Forlani è stato accolto favorevolmente dal Sindaco, Umberto Leoni, e dal Presidente del Consiglio comunale, Ilaria Signoriello, «in quanto – hanno affermato – la cittadinanza europea va costruita partendo proprio dai cittadini, portando quindi il dibattito tra la gente».

«La crisi che si sta abbattendo sui paesi deboli della zona euro, Grecia in testa, potrebbe minare – ha dichiarato l’Assessore Forlani – le fondamenta stesse dell’Unione Europea. Gli stati membri fondatori, Germania, Francia e Italia per primi, hanno quindi la responsabilità storica – ha concluso – di fondare, al più presto, un primo nucleo di stato federale, senza se e senza ma». Ecco quindi l’importanza di questo Consiglio comunale, che vorrà essere un dibattito nel corso del quale verranno coinvolti anche gli studenti della cittadina.

Nel corso del pomeriggio saranno infatti presentati quattro brevi lavori elaborati dagli alunni delle scuole elementari e medie di Lanuvio e Campoleone, sul tema “Costruire l’Unione Europea per…”, al fine di illustrare le loro idee per realizzare un’Europa forte e solidale.

Ad arricchire il dibattito ci sarà l’intervento del Professore di Diritto internazionale della “Sapienza” di Roma, Carlo Curti Gialdino, che terrà una lezione sulla “Dichiarazione Shuman” e il futuro dell’Europa. Successivamente sarà aperto dalla Giunta il dialogo con i cittadini presenti e in conclusione dei lavori, il Consiglio comunale presenterà l’Ordine del giorno e procederà all’approvazione dello stesso.

Convocazione Consiglio Comunale di Lanuvio

COMUNE DI LANUVIO

Con il patrocinio della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea

Convocazione straordinaria del Consiglio comunale aperto alla cittadinanza
in occasione del 60° ANNIVERSARIO DELLA "DICHIARAZIONE SCHUMAN"

Il Presidente del Consiglio rende noto che venerdì, 7 maggio 2010, ore 16,30 in P.zza Vittime di Brescia (in caso di maltempo presso il Centro polivalente anziani di Lanuvio) il Consiglio Comunale si riunirà in seduta straordinaria con il seguente

ORDINE DEL GIORNO:

60° ANNIVERSARIO DELLA ''DICHIARAZIONE SCHUMAN'' : NECESSITA' DI UNA UE AUTENTICAMENTE FEDERALE, CONTRIBUTO DELLE REALTA' LOCALI AL COMPIMENTO DELLA PRIMA DEMOCRAZIA SOVRANAZIONALE

La seduta consigliare verrà arricchita dalle riflessioni dei ragazzi delle Scuole di Lanuvio e Campoleone e da una breve lezione del prof. Carlo Curti Gialdino ( docente presso la cattedra di diritto internazionale della Facoltà di Scienze Politiche de "La Sapienza" di Roma e presidente della locale sezione del Movimento Federalista Europeo di Campoleone) sulla dichiarazione Schuman ed il futuro dell'Europa.

Qualora non si raggiungesse il numero legale la II convocazione avrà luogo il giorno SABATO 08 MAGGIO 2010 ALLE ORE 16,30.

LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
ILARIA SIGNORIELLO

martedì 9 marzo 2010

La paura e la speranza

di Nicola Forlani

E' finita in Europa l'età dell'oro”. E' finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la “cornucopia” del XXI secolo. Una fiaba
che pure ci era stata così bene raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro.

Come si è già visto in tante altre rivoluzioni, quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre.

Il corso della storia non poteva essere fermato, ma qualcuno e qualcosa – vedremo chi e cosa – ne ha follemente voluto e causato l'accelerazione aprendo, come nel mito, il “vaso di pandora”. liberando e scatenando forze che ora sono difficili da controllare.”

Con queste riflessione si apre il libro di Giulio Tremonti “La paura e la speranza”, edito da Mondadori, nel marzo del 2008. Senza alcun velo di ipocrisia, e proprio partendo da alcune considerazioni sulla situazione di stallo del vecchio continente, l'autore compie un'analisi sferzante ed autorevole sulle cause della crisi, i passi falsi della politica, le spietate dinamiche della finanza internazionale.

Non manca di delineare anche la strada per vincere la paura e tornare alla speranza. Egli sostiene che il nuovo non può più nascere sul terreno dell'economia, ma, prima di tutto, su quello della morale e dei principi. Occorre un atto rifondativo della politica europea che faccia perno su sette parole d'ordine: valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità e federalismo.

Il pensiero dell'autore va diametralmente in opposizione al movimento del '68 e a tutti gli errori conseguenti di quella stagione politica. Egli invoca la creazione di una “fortezza Europa”, contro l'attacco dell'Asia e la tempesta della globalizzazione; qualcosa di più di un appello al protezionismo, qualcosa di meglio del conservatorismo.

La globalizzazione mostrerà il conto, il conto della crisi finanziaria, il conto del disastro ambientale, il conto delle tensioni geopolitiche per la lotta per la conservazione o per il dominio delle risorse naturali.

“Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo di fronte l'imprevedibile, l'irrazionale, l'oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato dai demoni”. Considerazioni spietate che individuano i principali responsabili della crisi finanziaria nell'ideologia mercatista (utopia madre della globalizzazione) e nella nuova tecno-finanza.

La macchina miracolosa della globalizzazione ha visto lavorare a braccetto i liberali drogati dal successo ottenuto nella lotta contro il comunismo insieme ai post-comunisti divenuti liberisti per salvarsi, i banchieri travestiti da statisti insieme agli speculatori-benefattori. Gli economisti erano sullo sfondo, a far da sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo globale.

La soluzione non è nell'economia, né, tanto meno, nella tecnocrazia, ma nella politica e nel potere. Per Tremonti l'Europa della moneta unica e dell'allargamento ad est ha esaurito la propria spinta propulsiva. L'Unione europea uscita dal Trattato di Lisbona è esausta ed incapace di riformarsi.

Eppure, proprio all'Europa spetta ancora un compito rivoluzionario, improntato ad una politica opposta alla dittatura sfascista del relativismo.

L'Europa, sotto gli strali dell'euroburocrazia, ha progressivamente perso la sua identità. Molteplici le cause. Tremonti si sofferma in particolare su quelli di ordine sociale.

Tra queste spicca l'idea postmoderna della famiglia orizzontale, con gli strumenti contrattuali di base (pasc, unioni di fatto), che sublima l'idea del consumismo dei sentimenti. I matrimoni “pop” sono sempre più immersi nella profonda solitudine che si genera nell'effimero shopping giuridico a bassa intensità morale.

Inoltre il '68 ha comportato la scomparsa dell'autorità. I diritti hanno preso il posto dei doveri trasformando la società in una poltiglia di particolarismo. Sono andati distrutti, con furia iconoclasta, il valori del decoro, del rango e del merito.

L'iperanomia, quel fenomeno connesso alla moltiplicazione di norme disancorate dalle istituzioni e alla proliferazione di sanzioni minacciate, ma inapplicate, ha comportato una sempre maggiore sfiducia nell'ordine sociale. Troppe leggi, nessuna legge. Occorrerebbe invece imboccare un processo di demoltiplicazione normativa al fine di vincere la confusione, a tutto merito di un maggior rigore applicativo.

L'uomo nuovo si è liberato dei doveri sociali, smarrendo così la propria capacità di un esercizio di responsabilità (insieme morale, sociale e spirituale), in assenza della quale nessuna nuova visione politica è possibile.

Per Tremonti, cadute le grandi ideologie, solo il federalismo, forma politica di una nuova responsabilità, può sostituirsi al calante senso del dovere verso lo stato-nazione, sempre più in crisi.

Nel capitolo finale “quo vadis Europa” è evidenziato un severissimo giudizio sullo stato dell'Unione europea. La Commissione europea è in crisi. La sua ipertrofica composizione a ventisette gli impedisce di affrontare alcun serio dibattito, con conseguente crescita autoreferenziale dell'apparato burocratico. Effetto palese: la crescita del deficit democratico dell'istituzione quanto la sua impopolarità presso l'opinione pubblica.

La sindrome tecnocratica si estende anche al Consiglio. Con buona pace di chi ritiene che la democratizzazione dell'Unione possa essere favorita da un abbattimento delle materie in cui vige la decisione all'unanimità, nello schema a 27 la geometria delle minoranze di blocco (anche per effetto dei cicli elettorali nei singoli stati membri) è tale da vanificare ogni maggioranza. Di qui la permanente necessità di deliberare all'unanimità, anche in materie in cui vigerebbe la maggioranza.

Per Giulio Tremonti, una nuova fase del processo di integrazione non può che recuperare un approccio propriamente e pienamente politico. Occorre evitare di affrontare il tutto, tranne l'essenziale, rintracciabile in un effettivo aspetto di potere. I vecchi mezzi tecnocratici e metapolitici dell'era gloriosa dell'integrazione economica si sono sublimati ed ossificati nel trattato di Lisbona.

Non si tratta, come fatto nel passato, di dare qualcosa in più all'Europa, ma di fare dell'Europa qualcosa di diverso attraverso il riconoscimento pieno dell'iniziativa legislativa al Parlamento europeo. A giudizio dell'autore è proprio questo l'aspetto di struttura che potrebbe rivoluzionare l'assetto dell'Unione europea.

La nuova politica economica di interesse europeo dovrebbe orientarsi su dodici direttrici principali:

1)Trattato di unione commerciale tra Europa e USA basato su comuni principi doganali e di proprietà intellettuale.

2)Proposta per una nuova Bretton Woods estesa ai campi valutari,alla tutela dell'ambiente, clausole sociale e controllo dei mercati finanziari

3)in alternativa, applicazione effettiva delle clausole sociali ed ambientali contenute nel WTO.

4)se non bastasse, l'Europa potrebbe, in analogia alle prescrizione delle leggi USA di attuazione degli accordi GATT/WTO, prospettare la sua uscita unilaterale se l'applicazione di queste regole arrecasse un serio pregiudizio e comportasse restrizioni per l'operatività delle imprese europee.

5)Spostamento dell'asse del prelievo fiscale, dalle persone alle cose.

6)Moratoria legislativa in materia di imprese e lavoro per favorire un contenimento dei costi e un rilancio della competitività, con riduzione delle regolamentazione europea e nazionale.

7)Attrazione di capitali esterni. Tassazione zero (o di assoluto favore) per i nuovi investimenti esteri che operano in settori industriali strategici per lo sviluppo. Contestualmente va bloccata l'attività dei “fondi sovrani” in Europa.

8)Emissione di Euro-bond. Ai limiti imposti sulle politiche di bilancio nazionali dal trattato di unione monetaria deve corrispondere un piano europeo di investimenti pubblici e privati in settori strategici per lo sviluppo.

9)Una politica industriale europea. L'Europa deve fermare l'uso indiscriminato ed autolesionista dei suoi strumenti anti-aiuti di stato.

10)Una politica europea per la famiglia con l'esclusione dal 3% del patto europeo di crescita e stabilità di tutte le spese, sussidi, regimi fiscali speciali e detassazioni a favore della famiglia.

11)Un piano europeo per lo sviluppo del nucleare.

12)L'introduzione della detax (DT) per dare speranza all'Africa. Attraverso la vendita di beni e servizi si può liberamente aderire ad iniziative etiche, private o pubbliche, speciali o generali, nazionali o internazionali.

Questo, in buona sintesi, il pensiero di Giulio Tremonti. Insufficiente nell'analisi e nella proposta? Forse. Per tanti versi è anche ovvio che sia così. Eppure, sotto i nostri occhi, rimane un fatto incontrovertibile: egli esprime un pensiero ardito quanto di più non è dato vedere nel panorama politico ed intellettuale italiano. I federalisti europei non possono certo sottrarsi al confronto.

Campoleoene, 8 marzo 2010

lunedì 8 febbraio 2010

Lettera aperta al segretario del MFE

di Nicola Forlani

Caro Giorgio,
in relazione agli orientamenti assunti in occasione dell'ultima direzione nazionale e in vista dell'incontro di Segreteria previsto per il prossimo sabato, desidero sottoporti alcune osservazioni.

Faccio circolare la missiva sul forum del Comitato centrale, convinto che siano considerazioni di interesse generale. Anche il testo, seppur scritto in forma epistolare, ha contenuto assolutamente pubblico.

Una prima questione è di carattere procedurale. E' ovvio che ogni occasione di incontro sia la benvenuta, ma il reiterarsi della delega di funzioni di indirizzo e di mediazione politica non più agli organi a tal scopo delegati (direzione e comitato centrale) ma ad assemblee informali a cui non si può che riconoscere una pura e semplice funzione consultiva, può trasformare l'occasionalità in
consuetudine, sottolineando, così, l'intrinseca difficoltà di governo della nostra organizzazione.

Inoltre, i militanti come il sottoscritto, che non gravitano nell'area limitrofa alla sede dell'incontro (regioni confinanti con la Lombardia) hanno oggettive difficoltà a raggiungere più volte, a poche settimane di distanza, Milano. Se avessi saputo in anticipo che la direzione si sarebbe conclusa con un rimando alla riunione di segreteria, avrei probabilmente optato per la seconda occasione, visto che la prima è stata sostanzialmente una riunione di dibattito politico; un dibattito, a mio avviso oltremodo maturo, per assumere le opportune decisioni operative.

Ed ancora. Le giuste esigenze di gestione collegiale non possono trasformarsi in assemblearismo permanente. Se imboccassimo questa strada, potremmo scivolare inesorabilmente verso l'ingovernabilità del MFE. La democrazia interna, oltre che sulla giusta partecipazione di tutti, deve trovare momenti di sintesi e di delega politica ben definiti. Il permanente assemblearismo conduceì al caos e non certo ad una migliore e più alta forma di partecipazione politica.

L'esempio principe di questa responsabile delega è il congresso. Da poco abbiamo concluso quello di Catania e stiamo già a ricercare una nuova formulazione strategica alla nostra campagna d'azione. Delle due l'una: o non siamo in grado di rispettare le indicazioni congressuali o in tale sede non abbiamo affrontato i nodi cruciali che ora ci ritroviamo, puntualmente, a dovere fronteggiare.

Capire cosa è successo in terra siciliana non serve a formulare giudizi sul recente passato, ma solo ad individuare le mete che abbiamo ancora di fronte, e come raggiungerle. Parlare di ciò che è stato non è da interpretare come una postuma resa dei conti, ma un rinnovato impegno per il futuro. Con questo spirito caro Giorgio, ti prego di volere accogliere le mie considerazioni.

La riunione del Comitato federale Uef, che ricordiamo, si interpone alla riunione del Comitato centrale, è un ultimo elemento di riflessione procedurale che certo non può essere sottovalutato. La direzione non ha assunto orientamenti sulla strategia. Una riunione informale di segreteria allargata potrebbe mai definire ciò che l'organo politico non è stato in grado di assumere? Le decisioni assunte dall'Uef saranno poi lì a condizionare, come giusto che sia, le deliberazioni del nostro
Comitato centrale.

Insomma, per farla breve, c'è la concreta possibilità che senza nessun passaggio politico in Italia, ci troveremo a che fare con una nuova Campagna su cui il MFE non ha mai deliberato una precisa e puntuale mozione di indirizzo. Tradizionalmente, da quanto ricordo, erano i dirigenti italiani che tentavano di condizionare ed orientare le scelte Uef, utilizzando la leva di un MFE compatto e determinato. Ora potrebbe accadere giusto il contrario.

Come ricorderai tanti di noi, già prima di Catania, avevano avanzato specifiche proposte in merito ad un nuovo modello di governo che, in assenza di un leader indiscusso (come si è determinato durante la gestione Albertini) desse forma e sostanza al concetto di leadership collettiva.

Un'ipotesi percorribile, anche se non certo l'unica, era, ed è tutt'ora, quella di ricondurre al presidente un ruolo di indirizzo e di gestione degli organi tra un congresso e l'altro, attribuendogli così un ruolo super partes. In tale prospettiva, il presidente stesso, insieme a due o tre copresidenti, poteva andare a costituire una sorta di consolato di governo. A loro poteva essere affidata la funzione di garanti e di primi interpreti della leadership collettiva. Il presidente sarebbe così
diventato un primus inter pares che, per meglio svolgere le sue funzioni, poteva essere ricercato all'interno di una generazione e con un profilo personale non più coincidente tra quello dei copresidenti.

A Catania si è scelto una più tradizionale e legittima soluzione, affidando gli elementi di novità alla costituzione degli uffici. Come si è dimostrato in questi mesi, gli uffici possono avere una pura funzione di delega organizzativa, non potendo essere il luogo di indirizzo o di mediazione politica; funzione che non può che rimanere riconosciuta agli organi propriamente politici dell'organizzazione. Ergo, siamo al punto di partenza, ed i problemi sono ancora lì, di fronte a noi,
che attendono nuove e più coraggiose soluzioni.

Un secondo aspetto delle mie riflessioni è dedicato alle scelte di carattere strategico che dobbiamo assumere in occasione del prossimo comitato centrale. Alcune condizioni politiche legate alle dinamiche del processo di integrazione (ad iniziare dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona e alla designazione delle nuove figure di istituzionali dell'Unione) sono ormai maturate. Prendere ulteriore tempo, senza sfruttare l'occasione del prossimo comitato centrale, per lanciare una nuova
campagna d'azione MFE, non darebbe certo merito alla nostra tradizione militante.

Sempre richiamandomi a quanto avvenuto a Catania, occorre ricordare che anche la mozione sul rilancio del ruolo dell'Ufficio del dibatto, a firma Jozzo, Spoltore, Roncarà ha si segnato la fine di una contrapposizione interna che perdurava ormai da anni ed il ritorno di un'attiva partecipazione di tutti i militanti lombardi, ai massimi livelli, negli organi politici del MFE, ma ha sostanzialmente lasciato irrisolto la questione del che fare, e con chi.

Mi spiego meglio. La linea del doppio binario, emersa al congresso Uef di Parigi, e più volte richiamata nella deliberazioni di Catania poteva e può ancora essere declinata in due diversi modi: 1) una doppia azione con una doppia conduzione strategica, una ufficiale del MFE ed una promossa e sostenuta dal Comitato per lo Stato federale, che convivono sotto il cappello del doppio binario; 2) un'unica conduzione organizzativa del MFE in quanto tale, declinata in obbiettivi strategici ed azioni politiche.

La scelta tra l'opzione uno e la due è un problema che, da Catania ad oggi, attende ancora soluzione. L'aver rimandato la scelta che potevano essere assunte in occasione dell'ultima direzione e l'individuazione del nuovo momento di incontro informale nella segreteria allargata, sono lì a testimoniare il fatto che tra l'opzione uno e la due ancora non si sabbia bene quale strada imboccare.

La premessa di approccio attiene certo alle responsabilità di tutti noi, ma in particolare alle indicazioni che vorranno da un lato fornirci gli amici lombardi e dall'altro il presidente ed il segretario del MFE. Faccio solo presente che nel caso della scelta della doppia azione intesa come strategia bicefala (in ciò si sostanzierebbe la mozione sull'Ufficio del dibattito), potrebbe dare la stura ad una stagione militante fai da te.

Perché mai altri gruppi di militanti o centri regionali (oltre ai lombardi che hanno dato all'epoca inizio alle attività del Comitato per lo Stato federale) non potrebbero, a questo punto del tutto legittimante, individuare o una terza azione (il doppio binario potrebbe diventare triplo e chi più ne metta) o scegliere, invece, su quale dei due originari binari andare a collocare il proprio vagone
militante.

Si consideri, inoltre, che nella seconda ipotesi si potrebbe determinare l'originalissima condizione per la quale l'azione promossa dal MFE sia sostanzialmente sostenuta da una minoranza (nella migliore delle ipotesi dalla metà dei militanti) mentre quella promossa dal Comitato(organo altrettanto legittimo, ma pur sempre a conduzione esterna al movimento stesso) raccolga la maggioranza dei consensi, non in sede congressuale, ma sul piano del che fare. Non mi trattengo
sull'incresciosa situazione, di certo non edificante, in cui andremmo a porre la componente giovanile del MFE.

Io sono convinto della bontà della prima scelta. Anche a Milano ho cercato, seppur nella brevità del mio intervento, di sostenerla. Prima del congresso di Catania un'unica campagna d'azione declinata in aspetti strategici ed opportunità politiche poteva apparire una sorta di forzatura delle volontà.

Come sai, caro Giorgio, io ed altri ci siamo spesi, nei mesi precedenti il congresso, perché si potesse già da allora raggiungere l'obiettivo massimo. Sono convito che l'iniziativa della lettera aperta abbiamo smosso tanto le coscienze che condizionato, positivamente, le volontà.

Orbene, al momento, possiamo dar per scontato il giudizio che, probabilmente, in sede di congresso i tempi non fossero ancora maturi per la definizione di una campagna d'azione unitaria. A sostenere questa ipotesi ci sono tanto condizioni politiche che attengono al quadro di riferimento storico del processo (Lisbona o meno, non era comunque una condizione da poco, così come il costante declino dell'asse atlantico a favore di quello pacifico nei destini del mondo) che questioni tutte nostre, interne all'organizzazione, di carattere più spiccatamente umano.

La durissima contrapposizione degli ultimi anni ha lasciato molte ruggini che non è stato certo facile rimuovere. E' possibile che ancora ne sopravvivano alcune, ma tanto il clima di assoluta cordialità degli ultimi mesi, quanto la prospettiva dell'impegno comune possano definitivamente segnare l'effettiva svolta nella vita del MFE.

A sostengo della proposta di una nuova campagna d'azione strutturata su obiettivi strategici e azioni politiche incidono più elementi, tanto di natura politica che organizzativi. Proverò ad elencarne alcuni nella maniera più sintetica possibile.
Tanto la conclusione della vicenda della ratifica del trattato di Lisbona, che la sanzione, ormai pubblica, delle progressiva marginalizzazione, dell'Ue e dei suoi stati membri dal novero delle potenze che determineranno modalità, obiettivi e risultati delle relazioni internazionali mette in evidenza due elementi di cui dobbiamo pur tener conto.

Da un lato il processo di Lisbona ha reso evidente come il metodo comunitario – che ha segnato i successi dei sessanta anni di integrazione europea – abbia esaurito la sua spinta propulsiva. Dimensioni, competenze e istituzioni non sono più gli elementi caratterizzanti la possibile progressiva federalizzazione dell'Unione.

Anzi, ormai si sono evidenziati interessi e protagonisti che potrebbero innescare un processo di arretramento, qualora si mettesse di nuovo mano ad una riforma dei trattati. E' convinzione pressoché unanime che per i prossimi quindici anni non si
toccherà più l'assetto, ormai barocco, dell'architettura comunitaria.

D'altro canto, ogni evoluzione politica dell'Europa che prescindesse dall'introduzione di reali elementi fondativi del potere statuale (quindi federale) non farebbe che far vacillare ulteriormente il consenso stesso sul processo di integrazione, già mortificato dagli ultimi avvenimenti. Anche auspicabili iniziative nel settore delle cooperazioni rafforzate o di quelle strutturate nel settore della
difesa, sarebbero destinate al fallimento proprio perché ingabbiate nella dimensione
intergovernativa, dove un nucleo di avanguardia non potrebbe che assumere le funzione di un direttorio politico.

L'elemento di potere (cioè della effettiva capacità di condizionare le scelte altrui) nella prospettiva di una statualità federale cosciente, dichiarata e condivisa, dovrebbe essere l'elemento strategico su cui poggiare parte del nostro sforzo d'azione militante. Al punto in cui è arrivato il processo di integrazione o c'è questo salto effettivo o ogni ipotesi progressiva parziale si tramuterebbe in
sconfitta degli obiettivi e frustrazione delle volontà.

All'elemento strategico, inteso come fatto storico/culturale e non tanto come acquisizione giuridico formale (non siamo certo noi a dover mettere le brache al futuro) e che potrebbe dover essere sostenuto per anni ed anni (di qui la capacità di tenere sul campo forze profondamente militanti che non si lascerebbero condizionare al mancato raggiungimento dell'obiettivo strategico in tempi brevi)
potrebbe essere affiancato una serie di azioni a carattere più propriamente politico che andrebbero ad agire nella realtà contingente, qualunque sia il quadro di riferimento; anche a trattati costanti come applicazione possibile di politiche dell'Unione.

Due credo, siano gli elementi a carattere politico su cui potremmo concentrare il nostro interesse: 1) iniziative nel settore della cooperazione strutturata in materia di difesa; 2) l'emissione di titoli di debito pubblico europei a sostengo di politiche economiche (infrastrutture, ricerca, alta formazione) espansive a livello sovranazionale. Sul terreno politico potremmo, se del caso, utilizzare tanto il
parlamento europeo, all'interno del quale potrebbero nascere agguerrite minoranze federaliste, che prevedere l'attivazione della procedura di “iniziativa dei cittadini europei” (art. 11 par 4, TUE).

L'obiettivo strategico potrebbe assumere la forma di un appello da utilizzare nell'ambito delle attività più prioritariamente culturali dell'organizzazione. Essere, prioritariamente ma non esclusivamente, l'elemento di confronto con le elitè politiche e sociali. In tale ambito andrebbe visto con grande favore anche la nascita di un Comitato d'azione che riprenda l'iniziativa a suo tempo lanciata da Jean Monnet.

Le azioni politiche potrebbero invece assumere la forma di petizioni ad hoc che si inseriscano più nel contingente della vita politica nazionale ed europea. Queste ultime potrebbero essere l'elemento di confronto con i cittadini e con l'opinione pubblica in generale, rispondendo alla diffusa esigenza dei militanti del nostro Movimento che chiedono un più diretto e verificabile riscontro del proprio impegno militante.

Elemento strategico ed obiettivi politici si sosterrebbero e si alimenterebbero, rafforzandosi nel tempo, l'uno con l'altro. Nessuna proposta politica, anche limitata, insufficiente e parziale avrebbe senso alcuno senza il riferimento all'obiettivo strategico (obiettivo del potere statuale). Così come l'appello strategico per la fondazione di un'effettiva statualità federale non rischierebbe di rimanere nel limbo dei pii ed illuminati desiderata di una classe intellettuale in assenza di una concreta leva politica (le due petizioni) che consentano l'emergere della contraddizione.

Di tali considerazioni non ho l'ardire di attribuirmene alcuna paternità, al massimo una certa qual comprensione degli assunti logici. Sono tesi tipicamente albertiniane di cui sono rintracciabili, a parziale, e non certo esaustivo conforto, alcuni spunti nella lettera di Albertini stesso a Giampiero Orsello del 3 ottobre 1971 (pag. 94 del VI volume di “Tutti gli scritti”). D'altro canto, è pur vero che
ogni svolta ha spesso in se numerosi elementi di ritorno alle origini. Perché negarlo.

Caro Giorgio, vedo di essermi dilungato oltre quanto la pazienza e l'attenzione tua e degli altri amici federalisti possano consentire. Spero vivamente che si stia aprendo una nuova stagione politica del MFE. In tal caso, il tuo impegno e le tue responsabilità saranno determinanti come non mai in passato. Un caro saluto e a presto.

Campoleone, 30 gennaio 2010