lunedì 14 dicembre 2009

"Siate santi perché io sono santo" (Esodo 11, 45)

di Nicola Forlani

Robert Schuman è uno dei padri dell'Europa. Formatosi in una doppia cultura, quella francese e quella tedesca, egli sperimentò nella sua vita i drammi dell’ostilità franco-tedesca. Il prossimo anno ricorreranno i sessanta anni della dichiarazione che porta il suo nome.

Con la sua iniziativa ha avuto inizio un percorso alla fine del quale, almeno per i fondatori, era dichiarato anche l'obiettivo finale dell'unione politica dell'Europa. Schuman era mosso da un profondo afflato religioso, non solo nella sua vita privata, ma anche e soprattutto nel suo impegno politico che esercitò come vero e proprio apostolato. Egli applicava nella vita pubblica gli stessi principi della sua pratica religiosa privata.

Non è quindi un caso se il 29 maggio 2004, vigilia della Pentecoste, monsignor Pierre Raffin, vescovo di Metz, ha chiuso ufficialmente la fase diocesana del processo di beatificazione di Robert Schuman. Il Vaticano non ha detto ancora un si definitivo: la questione ha evidenti risvolti politici.

Il reverendo Ian Paisley, ex parlamentare europeo, tanto anticomunitario quanto ferocemente antipapista, è stato tra i più strenui oppositori della causa che porterebbe, dritto dritto, alla santificazione di Schuman. Per molti sarebbe decisamente troppo qualora il sigillo di santità, espressione dell'autorità papale, si erigesse sulla cima più alta della costruzione europea.

Del pensiero cristiano impegnato in politica, Schuman scriveva: "La democrazia deve la sua origine e il suo sviluppo al cristianesimo. È nata quando l’uomo è stato chiamato a realizzare la dignità della persona nella libertà individuale, il rispetto dei diritti degli altri e l’amore verso il prossimo. Prima dell’annuncio cristiano tali principi non erano stati formulati, né erano mai divenuti la base spirituale di un sistema di autorità. È stato per primo il cristianesimo che ha dato valore all’uguaglianza di tutti gli uomini senza differenza di classi e razze ed ha trasmesso la morale del lavoro - “ora et labora” di San Benedetto - con il dovere di compierlo come servizio all’opera della creazione divina”.

La società a misura d’uomo è una società costruita secondo un progetto di “umanesimo integrale” (come sostenuto da Maritain), cioè un umanesimo non materialista, bensì aperto a Dio e alla trascendenza. Le società senza Dio, ricordava Schuman, sono state società contro l’uomo: non solo prima dell’avvento del cristianesimo, ma anche nell’epoca moderna con i totalitarismi atei. Il compito dei cristiani, di fronte alla politica, non si limita a predicare l’onestà, ma è diretto a far sì che siano difesi i valori dell’uomo. Schuman era cosciente che anche le democrazie possono produrre leggi ingiuste.

Sarà solo un caso se anche gli altri padri dell'Europa fossero tutti mossi da un forte afflato religioso? Nel 1951, prima di iniziare i delicati negoziati che avrebbero portato all'adozione del Trattato di Parigi, Adenauer, De Gasperi e Schuman si incontrarono in un monastero benedettino sul Reno per meditare e pregare. Nella loro visione l'Europa stessa si trasfigurava in un simbolo del Cristo che si è fatto uomo. Una dimensione di fede che, attraverso la rivelazione, diventava un essere nella storia.

Negare lo stretto rapporto tra processo di integrazione europea e radici cristiane e come sostenere che non vi sia rapporto alcuno tra la maionese e le uova. Nel suo intervento al Parlamento europeo il 17 settembre del 1997, il Cardinal Carlo Maria Martini disse: "Quella che siamo invitati a costruire è un’Europa dello spirito, riscoprendo e riproponendo per l’oggi i valori che l’hanno modellata lungo tutta la sua storia.. Tutti i valori che si sono affermati grazie al contributi di molteplici radici culturali – dallo spirito della Grecia alla romanità; dagli apporti venuti dai popoli latini, celti, germanici, slavi e ugro-finnici, alla cultura ebraica e agli influssi islamici – hanno trovato proprio nella tradizione giudeo-cristiana una forza capace di inverarli e di promuoverli. Oggi è necessario e urgente ritornare a essi e viverli in modo rinnovato nel presente”.

Con la sentenza CEDU sulla rimozione dei Crocifissi, esempio emblematico di quali forme possa assumere la stupidità umana, si è voluta accreditare l'idea che l'Europa sia stata edificata, da un manipolo di illuministi radicali, per difendere i valori dello stato laico. Da qualche settimana gli ermellini continentali non sono più soli. La paura dei cittadini svizzeri, che non vogliono veder erigere minareti nelle vallate alpine, è lì a fargli degna compagnia.

Il vuoto dei simboli assume sempre di più la forma del vuoto dei valori. Una società senza Dio, che negasse la dimensione della trascendenza sarebbe il modello ideale dell'impalpabile stato laico europeo? Una nuova società contro l'uomo, come sosteneva Schuman?

I simboli religiosi parlano alle coscienze. Avere a che fare con la propria (di coscienza) è uno dei segni tangibili della libertà. Quest'ultima è la più difficile da esercitare per l'uomo, essere presupponente e ricolmo di pregiudizi. Ancor più ardito vivere questa libertà con gli altri, nella dimensione sociale e politica. E' facile rifugiarsi nell'individualismo materialista, sino al punto di trasformare l'estremismo laicista in una bandiera ideologica dove nascondere il lato peggiore del nostro animo. Ma occorre comprendere e mai giudicare.

Qui a Roma, uno dei luoghi pubblici per eccellenza, simbolo della laicità dello stato, è il Tribunale per i Minori. Ha sede sul lungo Tevere, in un edificio un tempo adibito a convento. L'Aula Magna è posta nella cappella. Le sedute di svolgono sotto gli affreschi votivi.

Come in tutti i conventi, anche al centro dell'edificio che ospita il Tribunale vi è è un piccolo chiostro. Al centro, sopra una fontanella, c'è una Madonnina. Chi potrebbe mai essere così stupido da richiederne la rimozione in nome del diritto europeo? Chi è lo stolto che, senza peccato, senza Dio, senza tensione verso il trascendente, sarebbe pronto a demolire quelle poche e povere pietre?

Campoleone, 12 dicembre 2009

giovedì 26 novembre 2009

Pensiero positivo*

di Nicola Forlani

Secondo James Hansen della NASA, solo riducendo immediatamente l'uso dei combustibili fossili potremo salvare la Terra da qui a 20 anni. In caso contrario, si prevede un aumento del livello dei mari di 7 metri entro fine secolo.

Dal 7 al 18 dicembre prossimo si svolgerà s Copenhagen il summit Onu sul clima. Il Parlamento europeo si è espresso a favore di un accordo politico che possa rimediare, per quanto possibile, all'editto di Singapore, con cui Obama e Hu Jintao hanno annunciato che non vi sarà nessun accordo vincolante, tanto meno un trattato, sui tagli alle emissioni di CO2.

Il Parlamentari europei hanno sottolineato la disponibilità unilaterale dell'Unione a ridurre del 20% le emissioni entro il 2020 e del 30% se altri paesi vorranno aderire agli accordi.

E' ben probabile che a Copenhagen si raccoglierà molto poco, tante parole ma pochi impegni. Usa e Cina hanno deciso per tutti, mettendo ai margini della scena internazionale i 27 paesi del vecchio continente, divisi ed impotenti. Sarà arrivata l'ora di uno scatto di orgoglio federalista per l'Europa?

Un pensiero positivo. Fondare il potere europeo non è solo un'illuminata aspirazione, ma l'unica strada per salvare il futuro del pianeta.

Campoleone, 26 novembre 2009

* editoriale in voce per il programma radiofonico "Cosa decide il Parlamento europeo?". Una produzione Mediatelecom per conto dell'Ufficio per l'Italia del Pe. Progetto editoriale a cura di Nicola Forlani e Peppe Iannicelli.

Per le trasmissioni già andate in onda: http://www.europarl.it/view/it/trasmissioni/decidePE.html

venerdì 20 novembre 2009

Incontri per il federalismo militante, Cagliari

Sabato 5 Dicembre
SEZIONE DI CAGLIARI E CENTRO REGIONALE TOSCANO DEL MFE
INCONTRI PER IL FEDERALISMO MILITANTE PARTE 1
“La necessità di fondare la Federazione europea in un Mondo sempre più in difficoltà”

::: 10 - 13,30 “Dall’Atlantico al Pacifico: i nuovi equilibri del Mondo e l’Europa”
Parteciperanno ai lavori il Dott. Graziano Milia e l'On. Giampaolo Diana
Presiede Maria Teresa Di Bella Ruta
- Interventi introduttivi
Sante Granelli
Alfonso Iozzo
Giuseppe Usai
Simone Vannuccini

::: 13,45 Pranzo a buffet

::: 16,00 - 19,30 “Le nuove e le vecchie forme del progetto di unificazione europea. Il soggetto federale”
Presiede Valentina Usai
- Interventi introduttivi
Michele Ballerin
Bernard Barthalay
Rodolfo Gargano
Francesco Pigozzo
-------------------------------------------------------------------------------------------------------
● Domenica 6 Dicembre
SEZIONE DI CAGLIARI E CENTRO REGIONALE TOSCANO DEL MFE
INCONTRI PER IL FEDERALISMO MILITANTE PARTE 2
“La necessità di fondare la Federazione europea in un Mondo sempre più in difficoltà”

::: 9,30 – 13,00 “Il ruolo dei federalisti in questa nuova fase del processo d’integrazione europea”
Presiede Stefano Castagnoli
- Interventi introduttivi:
Ugo Ferruta
Nicola Forlani
Gino Majocchi

martedì 17 novembre 2009

Effetti global prodigiosi

ovvero dell'assenza del potere europeo

di Nicola Forlani

La conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici è in programma dal 7 al 18 dicembre a Copenaghen. Eppure il suo epilogo è già stato scritto. E' ormai certo un sostanziale fallimento delle
più generose aspettative createsi dopo una lunga e logorroica viglia.

La strategia europea può anche andare a farsi benedire, così come l'ottimismo che ha animato i tanti euro fiduciosi che hanno speso tempo ed energie a disquisire sui mirabolanti risultati che avremmo dovuto attenderci dal summit danese.

La vicenda ha del prodigioso. L'epilogo anticipato è stato scritto al vertice APEC, l'organizzazione per la cooperazione economica dei paesi dell'Asia-Pacifico. Obama e Hu Jintao hanno deciso che non ci sarà nessun accordo globale sui cambiamenti climatici, buco dell'ozono in testa.

Tutto rimandato sullo Strøget. Previste solo esposizione di intenti, folta partecipazione di “Grandi” e foto di gruppo finale, con Sirenetta annessa. Come all'inutile vertice FAO in corso a Roma, e prima nel G8 e G 21, passando per G4 e timori di G2, le dichiarazioni di impegno di stanziamenti economici si sprecheranno.

Poi, guarda caso, questi impegni non risultano nel testo delle dichiarazioni finali, e solo una piccola parte di quanto promesso verrà impegnato dai “Grandi” del mondo. A proposito, ma grandi in cosa? Di sicuro nelle bugie che sanno così ben dissimulare. Le possibili altre ipotesi interpretative del “Grande” potrebbero accavallarsi, una sulle altre, in un crescendo parossistico; un percorso di analisi che sarà però bene non approfondire ulteriormente.

Il nuovo corso dell'amministrazione americana inizia a perdere pezzi. Il primo presidente di colore degli Stati Uniti, quello che ha più volte dichiarato la discontinuità rispetto alle politiche energetiche, e quindi militari, degli Usa dopo l'era Bush, rimane schiacciato sotto le più ovvie, per certi versi anche banalmente evidenti, esigenze di potere. Per parlare di libertà ai giovani cinesi si è persino prestato ad un messa in scena con un piccolo gruppo di improbabili e compiacenti astanti. Tutto oscurato in Cina, giusto per far bella figura nei nostri telegiornali.

La svolta ambientalista che il Presidente ha tentato di imprimere nel proprio Paese è ferma al Senato, e sembra che lo rimarrà ancora per un bel pezzo. Al momento non è individuabile nessun accordo con il principale competitor (non di certo alleato o amico, ma solo riconosciuto antagonista) su scala globale, la Cina.

Senza tralasciare il fatto che Obama ha già un Nobel per la pace in tasca. Chi sa, un repentino aggravarsi di uno dei tanti focolai di crisi internazionale potrebbe costringerlo a dover dar piglio alla violenza. A quel punto dei suoi proclami sulla nuova strategia internazionale, volta ad un più prudente multilateralismo, potrebbe costringerlo a svelare quella che è la reale, e tradizionale, posizione degli americani in tema di politica estera: fare, eventualmente, con gli altri, quello che si è disposti a fare, in ogni caso, da soli.

Il presidente nero, con l'editto di Singapore, si è giocato già metà della propria credibilità. Perdesse anche l'altra metà, dovrebbe chiedersi “ Posso ancora ritirare il Nobel?” Sarebbe un problema di coscienza.

Ma il terremoto del Pacifico ha prodotto anche un altro devastante effetto, meno prodigioso del primo. Un'onda anomala ha iniziato ad investire i Paesi del vecchio continente. Per la prima volta, un vertice America Asia mette ai margini della scena internazionale l'Europa, la Germania, la Francia.

Per induzione, l'Unione europea tutta, non solo è battuta sul piano delle proposte, ma non è proprio entrata nemmeno in campo. La squadra del soft power è rimasta chiusa negli spogliatoi. La partita di Copenaghen si annuncia come un'amichevole di prestigio, dove dare un palcoscenico a vecchie glorie che non hanno più alcun titolo per partecipare ai campionati del mondo.

I federalisti lo sostengono da tempo: senza la fondazione di un reale livello di potere europeo (e l'unico livello riconoscibile ed efficace è solo quello statuale) l'Europa tutta è destinata ad una progressiva marginalizzazione. Nel migliore dei casi diventeremo una grande Svizzera, opulenta, dedita alla speculazione finanziaria e ottima destinazione turistica per yankee sempre più obesi e occhi a mandorla bionici.

Il secondo aspetto dell'assunto, la marginalizzazione, è stato recentemente ricordato anche da Massimo D'Alema in occasione di un incontro presso la Rappresentanza della Commissione a Roma. Peccato che l'Alto rappresentante (in pectore) per la politica estera e la sicurezza comune abbia evidenziato il male ma non la cura.

Chi sa. Sotto il peso di sberle, come quella di Singapore - che non potranno che moltiplicarsi nel futuro – i leader del vecchio continente potrebbero rendersi conto che è giunta l'ora di un soprassalto di orgoglio federalista.

Il tempo lavora contro il buon senso e la ragione. Speriamo che quando i “Grandi” dovessero mai avvedersi di essere diventati “piccoli piccoli”, saremo ancora in tempo per poter quanto meno partecipare a qualche scambio di opinione al momento del caffè, oltre a rito della foto. Quando? Ma ovvio! Alla conclusione dei prossimi vertici indopacifici.

Campoleone, 17 novembre 2009

lunedì 9 novembre 2009

Povero Cristo, povera Europa

La sentenza Cedu quale rappresentazione di quell'Europa di cui nessuno sente il bisogno
di Nicola Forlani

La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo contro il Crocifisso in aula (dicitura pubblicata sul sito del Consiglio d'Europa), sta sostenendo la nascita, nel nostro Paese, di un nuovo e ben più radicato movimento anti europeo.

Gli antipapalini rilanciano. Vanno bel oltre la questione strettamente giuridica, che riguarda esclusivamente un caso di specie, sostenendo la piena legittimità della rimozione dei Crocifissi dalle scuole, quale segno evidente della primazia dei valori dello Stato laico. Per inciso, nella scuole italiane, è già molto raro trovare aule con Crocifissi esposti; raro quanto trovare una struttura efficiente, personale docente motivato, ed alunni coinvolti e partecipi.

Possiamo annoverare molte condizioni di contesto che non fanno che esasperare la questione. L'ideologismo anticristiano, da espressione elitaria di movimenti radicali, sta assumendo sempre più i connotati di un ampio fenomeno di massa. La battaglia intrapresa da Papa Benedetto XVI contro le tendenze interpretative relativistiche sta ponendo la Chiesa cattolica in un'oggettiva posizione sociale minoritaria. Il laicismo, da espressione di una pragmatica modernità post illuministica, viene sempre più percepito come avversario degli elementi di religiosità della realtà contingente.

Altre opportune considerazioni potrebbero aggiungersi, senza però cambiare la principale caratteristica di ciò che sta avvenendo: il Crocifisso potrebbe diventare la bandiera di un'identità localistica, di un risorgente nazionalismo, di una pura e semplice lotta religiosa. E' già successo nel passato, con la compiacenza del potere temporale della Chiesa. Potrebbe ridiventarlo nel futuro?

Il Crocifisso è solo un oggetto che rappresenta una via di salvezza dalle umane angosce, attraverso la passione e la resurrezione; questo è quanto ci insegna il catechismo. Non solo un puntale dogma di fede del Dio che si è fatto uomo, ma un elemento rappresentativo, quindi eminentemente culturale, di essere nella storia. Se per un cristiano esso è un segno di identità, per i laici è un segno perenne della volontà di riscatto.

Potrebbe essere interessante provare ad analizzarne le dinamiche odierne in relazione al processo di integrazione europea. Prima di inoltrarci su questa strada, proviamo a fare un salto indietro di quasi un quarantennio. Intorno ai dieci anni, quando iniziavo a pormi le prime, elementari, domande sulle finalità dell'esistenza umana, vivevo, in pratica, in una scuola media. Da casa mia aprivo una porta ed entravo in un altro mondo, in un altra dimensione; la mattina di studio, il pomeriggio di giochi. Qui ritrovavo mio nonno, il signor Preside, una sorta di liberale giolittiano che apprezzava, e sosteneva, il moderatismo democristiano.

Tutto l'edificio era ricolmo di Crocifissi. D'estate, quando si svolgevano i lavori di manutenzione, quel ragazzino di dieci anni, li raccoglieva tutti, perché non andassero danneggiati o dispersi. Poi, verso i primi di settembre provvedeva a riposizionarli.

Fu proprio mio nonno, per primo, a parlarmi del progetto europeo, di come gli abitanti del vecchio continente avessero imboccato una strada razionale finalizzata alla pacifica convivenza. Il suo era un europeismo tipicamente funzionalista: attribuire un un ente superiore competenze nella misura ed in funzione, appunto, di una migliore gestione delle risorse. Aderire all'Europa, pur in assenza degli attributi di democraticità intrinseca del sistema (l'Ue era e rimane un'organizzazione internazionale a competenze delegate e il dibattito sulla democraticità di tali strutture appare del tutto surreale).

In buona sostanza il Mercato comune portava nelle case frigoriferi, cucine elettriche, televisori, coca cola e tanta fiducia nel futuro. L'Europa non solo era funzionalista, ma funzionava proprio! Ciò lo si doveva alle oculate scelte della cattolicesimo politico italiano che da De Gasperi in poi, ha fatto dell'obiettivo sovranazionale la principale caratteristica della politica internazionale italiana. Insomma, mio nonno, e la sua generazione erano la tipica rappresentazione di quel consenso diffuso pro europeo che abbiamo iniziato a disperdere.

Torniamo ai giorni nostri. La sentenza della Cedu mette in primo piano l'Europa di cui nessuno sente il bisogno. Quell'Europa che, in nome dell'affermazione di diritti, va a mettere il becco un po' dappertutto, incapace di occuparsi dell'unica cosa di cui potrebbero avere a cuore i suoi cittadini, l'essenziale: risorse energetiche e sviluppo economico; difesa della natura e ricerca scientifico/tecnologica, concorrenza economica e mercati globali, politica di sicurezza e promozione dei diritti umani. Il potere di occuparsi di queste cose non esiste e costituire un tale potere vuol dire costruire la nuova dimensione statuale della Federazione europea.

A nulla vale appellarsi alle puntualizzazioni e precisazioni in tema di Consiglio d'Europa, Unione europea, corti e tribunali. Nell'immaginario del cittadino comune esse sono “quisquigle e pinzellacchere”. Cose da “azzeccarbugli” note ad un'infinitesima percentuale della popolazione; di certo non ai giornalisti, ai politici, ai giuristi, ai cultori delle scienze umanistiche, tranne che ai quei pochissimi esperti del settore, qualche migliaio in tutti il Paese.

La percezione è netta: i miei bisogni non trovano più soluzione in ambito sovranazionale; le istituzioni comuni sono buone ad occuparsi anche del sesso degli angeli. Anzi, più si tentasse di spiegare ed informare - erigendo così una sorta di invalicabile linea del Piave- tanto più l'opinione pubblica, sempre più incerta e confusa, comprenderebbe che è giunto il momento opportuno per tracimare, senza controllo, verso la paura e l'immobilismo.

L'Europa tecnocratica riscuote sempre meno consenso, questo è un fatto politico che non può essere né sottaciuto né sottovalutato. Quella stessa Europa, compiendo un passo indietro nella lotta alla laicità, ha travolto, con la sentenza Cedu, il più comune buon senso. Quest'Europa non funziona. Una strada perniciosa su cui si è incamminata e che non sembra voler abbandonare.

Perché mai la presenza discreta di quel povero Cristo appeso che guarda, tacendo, le tante stupidità e nefandezze umane scuote tanto le coscienze? Quel ragazzino, che sognava l'Europa raccontata dal nonno, si poneva allora la domanda, e se la pone ancora oggi.

Campoleone, 9 novembre 2009

lunedì 5 ottobre 2009

Quel gran pasticcio di Lisbona

di Nicola Forlani

Tutti con gli occhi puntati in Irlanda, ad attendere quel fatidico si: scontato; scolorito; burocratico. Un si per quell'Europa alla carta dove ormai ognuno può ordinare quel che gli pare, senza aver in minimo conto la comune dimensione di destino che dovrebbe legare, in un vincolo indissolubile, i popoli del vecchio continente.

Un si raccolto con un referendum burla che fa spregio dell'espressione stessa della volontà popolare. Ma perché gli irlandesi si ostinano a non introdurre una piccolissima modifica costituzionale? Approvino anche loro per via parlamentare i trattati internazionali. Eviteranno a quasi cinquecento milioni di cittadini dell'Unione la periodica messa in scena del referendum bis, la vendetta.

Eppure, l'avvenimento più importante dopo le recenti elezioni tedesche, si stava svolgendo a Manchester. Un città completamente colorata di blu dove David Cameron ha riunito, per l'ultima volta prima delle prossime elezioni di primavera, il partito conservatore.

Il loro ritorno al potere è del tutto scontato. Non c'è partita. Gordon Brown è distanziato di almeno dieci punti. Ma un problema per Cameron c'è, ed è ingombrante come non mai: L'Europa dei ventisette. E' su questo terreno che egli si giocherà la propria capacità di tenere unito il partito, sempre più diviso tra un pragmatismo di basso profilo europeista e lo scetticismo, se non la fobia, ovviamente sempre in salsa euro qualcosa.

Per contenere le spinte centrifughe egli è costretto a procrastinare il giudizio, ben cosciente che i sudditi di sua maestà sono notoriamente sensibili ai richiami isolazionistici - memori di un impero ormai inesistente - sopratutto quando sono chiamati alle urne.

Cameron ha trovato una posizione mediana: se il Trattato non sarà ratificato da tutti i Paesi, quando diventerò Primo ministro, il mio governo indirà un referendum popolare, raccomandando di votare no al Trattato (1). I suoi compagni euroscettici vorrebbero un referendum in ogni caso, ma lui prende tempo, dando al presidente ceco la concreta possibilità di diventare il miglior alleato dei conservatori d'oltre Manica.

I britannici potrebbero denunciare il trattato, appellandosi al diritto di recesso. Contestualmente potrebbero ritirare gli strumenti di ratifica che hanno già depositato. Potrebbero, si certo, ma sarebbe una soluzione del tutto sconveniente, sopratutto per chi ambisce a dare slancio economico e stabilità sociale ad un paese che sta vivendo, con dignità, ma anche con molta apprensione, lo crisi economica internazionale. L'Europa non può essere un pretesto per fratture che sminuirebbero la credibilità internazionale della Gran Bretagna.

In via del tutto ipotetica potrebbero anche ritirare gli strumenti di ratifica senza alcuna denuncia del Trattato. Ma sembra proprio che il caso di specie, teoricamente possibile, non trovi, al momento, alcun precedente storico.

Molto più facile appellarsi a Vaclav Klaus. Il presidente ceco, in quanto a firme adeguatamente ragionate e tranquillamente ponderate, sembra essere proprio un gran campione. Gli sono voluti ben nove mesi per apporre la sua firma alla ratifica dello statuto della Corte penale internazionale. Fatti incresciosi avvenuti proprio in questi ultimi giorni.

Nove mesi. Un tempo utile per favorire la vittoria di Cameron. Poi una volta al potere, chi sa. Lo stesso Klaus potrebbe risolvere la pendenza con una firma repentina, con buona pace per gli euroscettici, gli eurofobici e a tutto vantaggio degli euroentusiasti. In fondo far saltare il banco spalancherebbe la via all'integrazione differenziata, togliendo capacità di interdizione alla Gran Bretagna ed ai suoi satelliti minori. Il vero ed unico obiettivo è garantirsi al meglio la vittoria nelle elezioni politiche, non altro.

Nessuno sa come andrà a finire la storia. E' comunque evidente che quando c'è da raccogliere il consenso popolare che conduce, dritto dritto, agli unici reali centri di potere che esistono in Europa, i governi nazionali, non c'è trattato o interesse comune che tenga. Si può tranquillamente soprassedere alle norme previste dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, con interpretazioni, come dire, fortemente estensive.

Unica nota positiva. Da tutto questo pasticcio sembra si vada sempre più imponendo una nuova coscienza collettiva: proseguire su questa strada sarebbe inutile e suicida. Il quadro geopolitico dei ventisette è incompatibile con nuovi propositi integrazionisti. Solo un nuovo slancio politico, tra chi dovrebbe assumersi le responsabilità storiche dell'Europa in relazione ai destini del mondo, potrà rilanciare il processo di integrazione e con esso la prospettiva stessa della fondazione della Federazione europea.

Tra l'altro, l'occasione buona per i paesi fondatori sembrerebbe anche profilarsi. Piuttosto che star li a menar il can per l'aia con peregrine proposte di un quasi seggio, per una quasi unione, dove c'è un quasi governo, con un quasi ministro degli esteri ed un quasi presidente, il tutto per non contare quasi nulla, Francia ed Italia potrebbero appoggiare la richiesta del seggio permanente per la Germania, a condizione che i membri europei del Consiglio di sicurezza agissero in nome e per conto di un nuovo comitato politico. Tale organismo dovrebbe avere competenze in materia di politica estera e di sicurezza. L'invito potrebbe essere esteso anche alla Gran Bretagna, che, ovviamente, declinerebbe.

Basterebbe un mini trattato di non più di una decina di articoli, ratificato senza indugio alcuno da Francia, Germania ed Italia. Il Patto federale sarebbe bello che servito. Ma per far queste cose, così banalmente rivoluzionare, occorrono degli uomini politici europei che ambiscano al rango di statisti, ma non sembra, al momento, di vederne punto. Inoltre, occorrerebbe un vasto movimento di opinione capeggiato da una classe intellettuale tanto illuminata quanto determinata. Purtroppo, anche di questo movimento, al momento, non se ne vede traccia.

(1) If the Lisbon Treaty is not yet in force at the time of the next general election, and a Conservative Government is elected, *we would put the Treaty to a referendum of the British people, recommending a 'no' vote.* If the British people rejected the Treaty, we would withdraw Britain's ratification of it. Dal sito internet del partito conservatore. http://www.conservatives.com/Policy/Where_we_stand/Europe.aspx

Campoleone, 5 ottobre 2009

giovedì 17 settembre 2009

Evviva Barroso!!!

di Nicola Forlani

La vicenda dell'elezione del presidente della Commissione europea, finalmente, si è conclusa. Non se ne poteva più! Alla gente comune, a quei cittadini europei le cui istanze si vorrebbero rappresentare, questa storia non interessava affatto, e probabilmente, ancor più oggi, stimola la fantasia dell'uomo comune in rappresentazioni di basso profilo culturale. Anche per gli addetti ai lavori la questione aveva ormai assunto i toni eccessivi e sgraziati di un arazzo Luigi XIII.

Da buoni due anni era chiaro a tutti che il portoghese era il miglior candidato per succedere a se stesso. Eppure c'è stato chi ha voluto alimentare una pseudo contrapposizione in nome di un'Europa bisognosa di un maggior afflato integrazionista; unico risultato tangibile: aver rafforzato il ruolo e l'nfluenza dello stesso Barroso. Dall'elezione egli ne è uscito come una sorta di gigante. Ha coalizzato euroscettici, conservatori e popolari. Il gruppo della sinistra si è spappolato al suo interno. Meglio di così, per lui, non sarebbe potuta andare.

Ma non basta! In termini più strettamente istituzionali il Consiglio ha umiliato le timide aspirazioni politiche del Parlamento. Si è chiarito, una volta e per tutte, che il ruolo del Presidente non può derogare in alcun modo alle funzioni di segretariato amministrativo che i capi di stato e di governo hanno assegnato alla Commissione. Assegnato, si badi bene, dai governi di destra, di centro e di sinistra. Quando c'è da chiarire dove risiede il potere, quello vero, non c'è corrente politica che tenga.

Chi ha voluto giocare all'Europa politica, a quell'Europa politica che non esiste, è uscito sconfitto. Non poteva essere altrimenti. I partiti europei non esistono, per il semplice fatto che non c'è nessun potere europeo da conquistare.

L'Europa è incapace di agire. Lo sarà con Barroro, che bontà sua speriamo possa presto dimenticare attacchi ingiustificati alla propria persona. L'Europa sarebbe, in ogni caso, rimasta incapace di agire, anche se alla testa della Commissione ci fosse stato Pippo, Pluto o Paperino. E' di tutta evidenza che non è una questione di nomi, ma di poteri effettivi che non esistono. Fortuna che ci sono almeno i federalisti che non mancano mai di ricordarlo.

L'Unione europea è, e rimane, un organismo di natura strettamente confederale, con buona pace dei costituzional gaudenti che sono ancora lì a sperare che il Trattato di Lisbona possa generare il mostro post statalista che come un informe blog elevi il metodo comunitario a rigeneratore dei destini del pianeta.

Campoleoene, 17 settembre 2009

Pensiero Positivo *

di Nicola Forlani

La tornate elettorali per le europee sono state vissute più come occasione per regolamenti di conti tutti nazionali che non come luogo di eccellenza per raccogliere le reali esigenze del popolo europeo.

Eppure l'assemblea di Strasburgo rappresenta l'istituzione a maggior tasso di democrazia. Ha ampi poteri in tema di bilancio comunitario. Da la fiducia alla nuova Commissione. Ha poteri di codecisione legislativa su materie che riguardano la nostra vita di tutti i giorni.

Ma non basta. L'Europa deve presto trovare un nuovo slancio federalistico. Il compito è arduo ed attiene principalmente alle responsabilità storiche dei paesi fondatori: Francia, Germania ed Italia in testa.

Il Parlamento europeo potrà essere il luogo ideale dove coniugare le nuove volontà politiche unificatrici in un nucleo forte di stati federati, con gli interessi geopolitci della più vasta Unione a 27.

Un pensiero positivo. Gli Stati uniti d'Europa non sono una chimera illusoria, ma un progetto di civiltà, quanto mai essenziale per contrastare il mondo globale della finanza dopata e dell'autocrazia statale.

Campoleone, 15 luglio 2009

*editoriale del 17 luglio 2009, trasmesso nel programma radiofonico dell'Ufficio per l'Italia del Parlamento europeo "Cosa decide il Pe?"

Sono un militante federalista *

di Nicola Forlani

Le tesi dei federalisti si confrontano costantemente con il variegato mondo delle proposte degli europeisti e più in generale di coloro che a vario titolo, non di rado oneroso, si occupano di Europa.

Una palude all'interno della quale, al di là di encomiabili eccezioni, si distinguono intellettuali, non sempre titolati, e se titolati non sempre per meriti scientifici, troppo sensibili al sottile fascino del potere costituito per poter esprimere proposte originali.

I primi sono in buona compagnia di politicanti senza più ideologie e cattivi maestri orfani del comunismo, pronti a confondere le menti delle nuove generazioni con il global-cosmopolitismo pedante ed inconcludente.

A seguire ci sono i protagonisti della vita economica alla ricerca di una verginità etica ormai irrimediabilmente perduta nel vortice delle leggi di mercato. Per finire troviamo caterve di giornalisti ed opinion maker compiacenti e disponibili a cambiar bandiera a seconda dei reconditi interessi dell'editore, palese o meno che sia.

Tra tutti questi rimestatori di idee quelli i più pericolosi sono coloro che sanno impareggiabilmente coniugare l'ignoranza dei temi all'arroganza dei modi.

Oggi, come per il passato, in questo variegato scenario, tocca ai militanti del Movimento Federalista Europeo sapersi distinguere. Essi hanno l'unico scopo di offrire il proprio contributo alla costruzione della Federazione europea, facendo appello, prima ancora che al patrimonio ideologico del federalismo organizzato, alla capacità di autonomia nei confronti del mondo politico tradizionale.

Un'autonomia che si sostanzia tanto in termini di elaborazione di un rigoroso quadro teorico di riferimento (Albertini) che di definizione di una combattiva azione politica (Spinelli).

Un'autonomia che va oltre l'abiura del conformismo culturale e che mira alla costruzione di un processo identitario che coniugando, azione e pensiero, sconfigge i pericoli dell'alienazione e fa del militante federalista un protagonista, consapevole, della storia, della sua storia, della storia dell'umanità.

I due elementi, pensiero ed azione, sono indissolubilmente legati e definiscono in maniera del tutto originale lo spessore culturale, prima ancora che politico, dell'"orgoglio federalista".

Ogni buon militante, al di là delle proprie attitudini personali, tende ad essere un intellettuale ed un politico, non di professione, egli non trasforma le proprie capacità in fonte di guadagno personale, ma dell'intellettuale e del politico ambisci averne la professionalità. Egli, cioè, mira a pensare e ad agire secondo una dimensione scientifica che fa dell'approccio volontaristico una forza e non certo un limite.

Ogni buon militante federalista ha vissuto un proprio personalissimo momento elettivo, che nulla a che fare con la partecipazione formale agli organi di rappresentanza. Egli si sente realmente partecipe del Movimento solo quando ha la percezione che le proprie idee e il proprio contributo diventano un tutt'uno con quelle degli altri compagni di viaggio.

Quando si è nel dibattito, quando si avverte di aver preso confidenza con un autonomo linguaggio, quando si avverte che le proprie opinioni sono parte e condizione per lo sviluppo di un reale pensiero comune, solo in quell'istante, di cui ognuno di noi serba un personalissimo ricordo, solo allora ognuno di noi può dire di se stesso: sono un militante federalista.

Quando si è nell'azione, quando si avverte che il proprio ruolo di agitatore politico viene preso ad esempio da altri, dai giovani, quando si percepisce di aver loro offerto la vera occasione elettiva, è solo in quell'istante che un militante ha la netta percezione che il proprio lavoro non è stato vano e che altri sono pronti a continuare la battaglia federalista contro le forze della conservazione.

Oggi, come per il passato, la proposta federalista non è quella che ha le maggiori possibilità di essere realizzata, non è quella che trova il maggior favore dell'opinione pubblica, non è quella che giustifica le logiche di potere nazionale, non è quella che cerca il superficiale ed impalpabile favore della palude europeista, ma è quella che ha l'ambizione di far emergere il partito di coloro che vogliono, inequivocabilmente, l'unione politica dell'Europa su basi federali.

La fondazione dello stato europeo, quello stato che sarà la risultante della sua posizione di forza nel mondo e dei suoi rapporti interni e non certo la creazione empirica di decisioni di individui e di gruppi politici e sociali, non avrà solo una valore concreto ed immediato, ma avrà un significato tutto ideale, accertabile nella dimensione culturale che motiva in profondità la formazione del pensiero umano: la cultura della negazione politica della divisione del genere umano.

E' nel perseguimento di questo alto valore ideale, è nel dar forma al proprio destino, e con esso al destino dell'umanità, che ognuno di noi può a buon diritto dire: sono un militante federalista.

Campoleone, 26 marzo 2009

*Intervento al Congresso di Catania del MFE

venerdì 24 luglio 2009

Squilibri, crisi dello stato e professionismo sociale nella governance globale (32)

Campoleone, 27 aprile 2007

Premessa
Il presente contributo prende in esame tre temi di assoluto rilievo per una disamina circostanziata delle questioni sociali.

Il primo tema intende affrontare la contemporanea dimensione della globalizzazione non in termini ideologici, ma mettendo in evidenza i due grandi squilibri che caratterizzano l’attuale fase dei rapporti internazionali e le responsabilità a cui l’Europa continua colpevolmente a sottrarsi: gli squilibri economico finanziari con il deficit di partita corrente degli USA e della Gran Bretagna ed il surplus della Cina, Giappone e, più moderatamente dell’area dell’euro; gli squilibri energetici quale fonte degli squilibri politici, economici e commerciali a livello mondiale.

Il secondo tema affronterà la questione del ridimensionamento degli attori nazionali, ad iniziare dallo Stato e dalla nascita di nuovi attori internazionali, imprese multinazionali, organizzazioni internazionali, società civile, movimenti popolari. Qui le tesi sostenute sono a confutazione, cioè contestano la visione globale come premessa di un nuovo ordinamento politico internazionale non statale. La nuova percezione culturale del vivere in un mondo globale appartiene già a molte correnti internazionaliste del novecento. L’originalità della proposta federalista, pur nascendo nella più vasta dimensione del cosmopolitismo, mantiene, e per molti versi aumenta di spessore e di forza politica, quanto più gli squilibri globali obbligheranno a governare, realmente, i processi di cambiamento.

Il terzo tema analizzerà i rapporti tra società civile e deficit democratico all’interno del sistema di governance europeo. Particolare attenzione verrà dedicata ad una disamina delle organizzazioni che compongono la società civile (forme giuridiche, struttura, funzioni, risorse umane, risorse finanziarie), alla loro opera di lobbing (rappresentazione e tutela di interessi strutturati) all’interno del processo negoziale e funzionale del sistema comunitario. Inoltre verranno prese in esame le funzioni delle élite tecnocratiche ed altamente professionalizzate che governano le organizzazioni della società civile stessa ed il loro rapporto di stretta contiguità con le élite tecnocratiche delle istituzioni comunitarie.

Gli squilibri globali e le responsabilità europee

Globalizzazione è un termine molto alla moda, impegnativo, ma anche estremamente elastico, utilizzato a proposito e a sproposito, spesso per identificare una nuova realtà dove le leggi dell’economia ed i principi della politica sembrano non trovare più una opportuna collocazione.

L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) la definisce come: Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia».

Sebbene con questo termine ci si riferisca prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende multinazionali, il fenomeno va inquadrato anche nel contesto dei cambiamenti sociali (squilibri tra Nord e Sud, paesi poveri e ricchi), tecnologici (reti informatiche e di comunicazione) politici (fine dei regimi comunisti, nascita dei movimenti popolari internazionali non global e new global). Occorre aggiungere che si sta sempre più affievolendo il baricentro delle relazioni transatlantiche con l’emergenze delle potenze economiche asiatiche, ad iniziare dalla Cina che vanno a modificare il quadro delle relazioni commerciali, finanziarie ed industriali.

Non mancano intellettuali come Amartya Sen (1), economista indiano e premi Nobel per l’economia nel 1998, che tendono ad una lettura del fenomeno meno legata ad aspetti contingenti degli ultimi tre decenni. In particolare la Sen sostiene che i processi di globalizzazione sono in corso da almeno un millennio, attribuendo così al concetto una dimensione temporale e funzionale niente affatto discontinua rispetto alla sviluppo economico e politico così come conosciuto anche nel novecento.

Più che considerare il fenomeno nelle sue intrinseche qualità positive, quale strumento per lo sviluppo dei paesi poveri del mondo o negative, quale sistema economico che tende a far perdurare ed anzi accentuare le disparità tra il Nord ed il Sud del mondo, è opportuno identificare la natura degli squilibri globali, e, conseguentemente, le responsabilità dell’Europa nel governo delle relazioni internazionali.

Gli squilibri economico finanziari

Le grandi aree del mondo stanno sempre più aumentando lo squilibrio nei rapporti economici e finanziari. Il deficit di partita corrente degli Stati Uniti, Gran Bretagna e parte dell’America del sud continuano ad essere più che significativi. Quello USA è il 6% del Pil nel 2005. I pagamenti correnti degli altri paesi del G7 dell’area euro sono invece in surplus, come per il Giappone e la Cina. Si aggiunga che lo yuan cinese, seppur abbandonato nel luglio 2005 l’aggancio con il dollaro, per trasferirsi ad un paniere di valute, di fatto opera ancora in un sistema di cambi fissi che ricorda il sistema di Bretton Woods che legava, negli anni sessanta, i paesi europei e gli USA. Il deficit americano era finanziato dalla accumulazione di dollari nelle riserva europee così come oggi la Cina e altri paesi asiatici finanziano il deficit americano. Fino a che punto il sistema reggerà? Cosa avrà quando si passerà alla flessibilità piena della moneta cinese?

All’Europa toccherebbe raccogliere la sfida della competitività attraverso lo sviluppo delle proprie capacità di offrire servizi avanzati, attraverso una politica di liberalizzazione del mercato dei servizi, di cui la Cina ha ed avrà ancora più nel futuro un grande bisogno. La strategia di Lisbona non è decollata in sviluppata all’interno di una visione intergovernativa. I piani d’azione sono stati relegati a livello nazionale che hanno dato risultati del tutto insufficienti di fronte alla necessità di cambiamenti strutturali. Quei cambiamenti che, inevitabilmente, andranno ad incidere anche sul modello di welfare state (pensioni, sanità, ricerca, formazione permanente, mercato del lavoro)(2).

La governance europea si è limitata, e non avrebbe potuto fare altro, a codificare alcune attività e a definire la cornice istituzionale. In particolare attraverso la definizione di obiettivi e linee guida comuni e la successiva individuazione di indicatori comuni su cui basare la valutazione delle performance nazionali. Inoltre ha previsto la predisposizione di piani d’azione nazionali monitorati da Commissione e Consiglio. Un’azione di benchmarking che in cinque anni, è stata, come ampiamente prevedibile, sostanzialmente inutile ed improduttiva.

Premessa indispensabile per lo sviluppo di una coerente politica di rilancio della competitività è l’integrazione dei mercati finanziari europei. Giusto, Jappelli, Padula e Pagano (3), hanno valutato che il Pil europeo potrebbe aumentare sino al 10% a seguito di un’effettiva integrazione finanziaria che poggi sulla costituzione di una borsa continentale. Altri autori, e la Commissione stessa, si sono esercitati in numerose simulazioni di misure di politica economica direttamente collegate alla strategia di Lisbona.

Gli squilibri energetici

La prima e la seconda legge della termodinamica regolano la trasformazione dell’energia. La prima afferma che il contenuto totale di energia dell’universo è costante (non può essere ne creata ne distrutta) ma si trasforma solo da uno stato all’altro. La seconda stabilisce che l’entropia totale è in continuo aumento, cioè che l’energia cambia continuamente stato ma solo in un’unica direziona, da disponibile ad indisponibile, dall’ordine al disordine. E’ possibile invertire il processo antropico solo utilizzando altra energia. La società umana è organizzata dal continuo sforzo di convertire l’energia disponibile ricavata dall’ambiente al fine di sostenere l’esistenza stessa del genere.

In buona sostanza le leggi della termodinamica governano l’ascesa e la caduta dei sistemi politici, la libertà delle nazioni, la sudditanza di alcuni popoli ad altri, i movimenti del commercio e dell’industria. Nel mondo contemporaneo, la guerra e la pace, la ricchezza e la povertà, la democrazia e la tirannide, troveranno nell’accesso alla produzione e alla trasformazione dell’energia motivo primo e fondamentale di indirizzo (4).

Attualmente l’80% circa dell’energia consumata nell’Ue deriva dai combustibili fossili: petrolio, gas naturale e carbone. Di questa percentuale, una parte considerevole, in costante aumento, proviene da paesi terzi. La dipendenza dalle importazioni di petrolio e di gas, che attualmente è del 50%, potrebbe salire all’80% di qui al 2030. L’Unione diventerà così sempre più sensibile alle riduzioni degli approvvigionamenti o all’aumento dei prezzi. A tutto ciò si aggiunga che è assolutamente necessaria una riduzione del consumo dei combustibili fossili sia per invertire la tendenza al riscaldamento globale che per rallentare l’esaurimento irreversibile di tale fonti.

Il Consiglio europeo dell’8-9 marzo 2007 (5) ha adottato un piano d’azione riguardante la politica energetica. L’attenzione è stata posta sul mercato interno del gas e dell’elettricità, la sicurezza dell’approvvigionamento, la politica energetica internazionale, l’efficienza energetica e le energie rinnovabili, le tecnologie energetiche. Il Consiglio ha altresì indicato nel 30% l’obiettivo di riduzione dell’ emissione dei gas serra tra i paesi industrializzati successivo ad un accordo sul regime applicabile dopo il 2012. Da parte sua l’Unione si è impegnata ad abbattere le proprie emissioni, entro il 2020, di almeno il 20%.

Gli impegni presi dai 27 riguardano sostanzialmente un quadro di rapporti intergovernativi che per loro natura saranno destinati ad un probabile fallimento. Ne più ne meno di quanto sta attualmente avvenendo per la strategia di Lisbona. Si lascia alla libera determinazione degli stati membri individuare tanto le modalità di attuazione che le risorse finanziare necessarie. In tale quadro la Commissione è destinata a svolge un ruolo notarile, di segretariato ed al massimo di assistenza. Un ennesimo esempio di governance che governa poco o nulla.

L’Europa manca di un mercato unico relativo alla produzione e alla commercializzazione. I singoli stati europei stipulano singoli accordi bilaterali, sia di fornitura che di investimento in infrastrutture, raggiungendo l’unico fatale obiettivo di aumentare il potere contrattuale della controparte, ad iniziare dalla Russia. Solo la cooperazione con una pluralità di paesi produttori potrebbe garantire stabilità economica nella fase di transizione dalle energie fossili a quelle rinnovabili. Ma questa politica energetica avrebbe bisogno di una coerente politica estera e di sicurezza comune, che manca oggi e che non troverà certo soluzione nemmeno nel TCE.

La sfida energetica rientra nella termodinamica, nella ragion di stato, nella sopravvivenza delle società ricche ed industrializzate, nell’accesso di gran parte della popolazione mondiale al modello di vita occidentale. E’ qui che si gioca il futuro o la marginalizzazione dell’Europa all’interno del quadro sempre più dinamico delle relazioni internazionali (6).

La risposta europea agli squilibri globali

L’integrazione finanziaria e la creazione della borsa europea possono essere mai sviluppate all’interno del modello comunitario funzionalista senza una coerente adesione alla soluzione statuale di tipo federale? E possibile pensare ad una politica energetica europea con lo strumento, ami utilizzato sino ad ora, delle cooperazioni rafforzate? Si può affrontare la questione energetica senza una politica nucleare unica? Si possono garantire la pluralità degli approvvigionamenti senza una politica estera e di difesa e confidando solo in Mister Pesc o ministro degli affari esteri che dir si voglia?

Tommaso Padoa Schioppa (7), nella Lecture Spinelli del gennaio 2007 risponde in maniera inequivoca:“La cura altro non è che la scelta consapevole del modello federale, quello che crea un effettivo potere di decidere e di agire a un livello superiore a quello degli Stati per le materie che gli Stati non sono più in grado di affrontare da soli. Solo questa scelta può ,rimediando alla mancanza di Europa, rimediare alle pretese mancanze dell’Europa. Una tal scelta non si traduce in realtà senza una discontinuità nell’assetto costituzionale. È dunque una scelta di fondo che deve venire prima della determinazione delle specifiche forme, pur tanto importanti, che può assumere il modello federale nell’Europa ancora da costruire.”

La questione della fondazione dello stato federale si sta progressivamente affermando come scelta ormai non più ulteriormente dilazionabile.

Crisi dello stato e governance mondiale

Il sociologo tedesco Ulrich Beck (8)definisce la globalizzazione quale processo irreversibile per cui gli stati, gli attori nazionali, perdono di importanza rispetto agli attori transnazionali. In tale visione la società non è più limitata ad uno stato ma al pianeta intero.

La globalità viene indicata quale percezione del vivere nella società globale, una sorta di coscienza civile collettiva di appartenenza ad una nuova dimensione culturale. Infine viene definito il concetto di globalismo quale corrente a carattere prettamente economico. Essa ritiene che il mercato debba agire da solo, in presenza di uno stato sempre più minimale, lasciando che economia e società globali trovino da soli i proprio strumenti di regolazione. Un sorta di liberalismo globale a cui si contrappongono coloro che chiedono barriere protezionistiche per motivi economici, ambientali o sociali. Alcuni di questi ultimi riprendono spesso la critica di origine marxista tra mercato e società.

Ovviamente una disquisizione in termini filosofici o sociologici della questione dello crisi dello stato nazionale nella prospettiva globale non risulta essere di particolare utilità ai fini di un’analisi politica sul da farsi per l’oggi e non per un futuro indeterminato, come nella migliore tradizione della proposta federalista (9).

Si può altresì notare come le approssimazioni teoriche sulla presunta progressiva estinzione dello stato quale forma di organizzazione ordinamentale si tentano di accreditare anche nel pensiero giuridico costituzionale. Anche nel recente dibattito sulla Trattato costituzionale europeo una consistente parte delle correnti politiche della sinistra radicale, che quasi sempre si riconoscono anche nei movimenti popolari, i presunti attori politici sovrannazionali, hanno sostenuto il processo costituzionale proprio ed in quanto aveva l’ambizione di non concretizzarsi in alcuna forma statuale.

Angelo Bolaffi, teorico della filosofia politica è uno dei sostenitori della teoria antisovranista in cui si afferma che unità politiche, spesso indefinibili giuridicamente, possano esistere al di la e oltre la forma statale. In un articolo su "Il Riformista” (10) ha sostenuto che va definitivamente archiviata quel combinato disposto dei sovrasti che individuano la politica solo nello stato nazione e le posizioni del federalismo radicale per le quali l’Europa unità non potrà che esistere nella forma dello stato federale. Secondo l’autore, che sostiene la visione dei due fuochi di legittimità, la realtà postatale sarebbe, in buona sostanza l’Unione stessa come oggi la conosciamo che racchiude in se la legittimità nazionale e quella comunitaria.

Ad una più attenta analisi appare evidente come l’impostazione risenta più di un antistatalismo atavico di fonte marxista che una reale corrente all’interno del pensiero giuridico costituzionale. Sulla questione si è esercitato il costituzionalista Maurizio Fioravanti, sostenitore, forse non pienamente avveduto ed oggi meno convinto, della costituzione europea senza stato e di un nuovo federalismo post statale (11).

In un suo intervento (12) nel corso del recente del convegno “Le Prospettive del federalismo in Europa” del 26 gennaio scorso è ritornato sull’idea dell’ellisse a due fuochi. Egli non elude il problema delle legittimità democratica, del principio democratico ed in ultima analisi dello stesso principio di sovranità ed aderisce al principio kelnesiano secondo cui esiste tanto stato quanto né è previsto nella sua costituzione.

Ovviamente respinge l’idea di Europa come coesistenza di sovranità nazionali, l’ipotesi sovranista degli stati nazionali, ma pone all’estremo opposto, non il modello federale tradizionale, ma uno scenario che definisce del tutto improbabile, quello che prevede una più o meno rapida dissoluzione delle sovranità statali a favore di un ordine sovrannazionale che sia, e riporto testualmente, “quasi miracolosamente capace di tenere in equilibrio tutti gli attori pubblici e privati, comunitari e statali”.

E’ del tutto evidente come la soluzione propugnata da Bolaffi, non venga considerata come la sintesi dell’ipotesi dei due fuochi ma una visione radicale e per nulla sostenibile di un nuovo ordine politico indefinibile che presuppone di poter fare a meno del principio di sovranità.

Fioravanti sostiene una terza soluzione. Accetta di scendere sul terreno del principio di sovranità per aderire ad una sua visione “condizionata” da far esistere all’interno di una “forma politica europea” considerata quale intero entro cui stanno gli stati nazionali. Questa è in ultima analisi la sua proposta di ellisse a due fuochi.

A ben vedere un intero, composto da parti distinte, che tali rimangono anche trovando nuova identità nell’intero a sovranità condizionate secondo il principio di sussidiarietà si chiama Stato federale, ma il nostro non riesce proprio a pronunciare la parola, è una cosa troppo tradizionale. Mario Albertini le ha chiamate cose “dure ed angolose” (13). La questione viene liquidata in passaggio emblematico che riporto testualmente :”Si dice comunemente che la soluzione a questo proposito non può essere quella classica dello stato federale. Bene: ma allora cos’altro?”

E chi lo dice? Sicuramente i detentori del potere nazionale, i profeti dell’internazionalismo orami orfano di ogni possibile radice ideologica. L’unica cosa certa è che lo dice chi non vuole l’Unione politica europea. Lo Stato federale non è una buona soluzione, ma un’ottima soluzione per la forma politica da affidare all’Unione europea.

Ovviamente della cosa non ci meravigliamo più di tanto. Gli studiosi, gli accademici, tendono, quasi esclusivamente, ad attribuire valore teorico ai fatti politici della realtà e molto raramente propongono soluzioni teoriche per modificare la realtà.

I migliori discepoli del ’68 sono stati culturalmente recuperati aprendogli le porte dell’accademia. In gran parte sono diventati i migliori alleati dell’ordine costituito. Possono mai essere i teorici di un nuovo ordine internazionale che va a scardinare le logiche di potere a cui devono molto, forse troppo?

Peter Häberle, forse il maggior analista della realtà giuridico costituzionale europea, ha recentemente dichiarato: “siamo tutti nani sulle spalle di Altiero Spinelli”.

Società civile e deficit democratico europeo

Il Libro bianco del 2001 della Commissione “La Gorvenance europea” identifica nel dialogo con la società civile una delle fonti di legittimità della Commissione e, più in generale dell’Unione stessa. Per molti versi lo sviluppo stesso della democrazia a livello internazionale ha trovato nelle forze dinamiche della società civile un sistema per controbilanciare la carenze di legittimità delle organizzazioni internazionali, Nazione Unite ed Unione europea.

Tali posizioni si sono andate consolidando nel corso degli anni ’90 grazie a due fondamentali fenomeni (14). Il primo si è alimentato per l’esigenza delle società postcomuniste di ricostruire lo Stato di diritto e di realizzare il valori basilari di libertà, eguaglianza, giustizia, sicurezza ed equità sociale. Il secondo ha riguardato in particolare i paesi occidentali a democrazia consolidata al di qua e al di la dell’Atlantico. In questo caso si sono avanzate richieste di una nuova divisione dei poteri tendenti ad affermare l’esigenza della solidarietà a tutela delle disuguaglianze globali: fame nel mondo, migrazioni di massa, tutela dell’ambienta, multiculturalità.

Una vera e propria scuola propedeutica di democrazia per gli altri in cui particolare rilevanza hanno acquistato le organizzazioni non governative a carattere internazionale. Le ONG si occupano di questioni settoriali come la politica agraria, il rapporto tra il Nord ed il Sud del mondo, la politica
per la pace, la tutela dell’ambiente, la questione femminile. Il ruolo prepolitico delle ONG negli anni 80 e 90 è in gran parte all’origine dei movimenti popolari internazionali new global e non global.

Obiettivo prioritario della società civile negli anni ’90 è stata pertanto l’elaborazione di una magna Charta dei diritti. Non è un caso che la carta dei diritti di Nizza, ora incorporata nel progetto di trattato costituzionale del 2004 (TCE) sia strenuamente ancor oggi difesa da tali organizzazioni. La convinzione comune è che lo Stato di diritto internazionale possa superare la concezione classica dello Stato federale e che nel rapporto dialettico tra istituzioni e tecnocrazie europea la società civile possa risolvere la questione del deficit democratico (15).

Il dialogo con la società civile si sostanzia in un rapporto strutturale, permanente e di rete che prevede la partecipazione ed il dialogo a tutti i livelli, dalla definizione delle politiche e alla loro attuazione. In buona sostanza si definiscono e si rafforzano i canali attraverso i quali, specifici interessi organizzati, sostanzialmente a carattere corporativo, fanno valere le loro istanze.

Prima di analizzare i rapporti tra società civile e dinamiche di governance comunitarie sarà bene tentare di definire le caratteristiche dell’oggetto dell’indagine. Cos’è la società civile? Quali sono le possibile accezioni del concetto? Quali sono i soggetti che ne fanno parte? Che natura, funzioni, struttura, bilancio patrimoniale hanno?

I soggetti che compongono la società civile

Il filosofo polacco Lesezek Kolakowski delinea tre accezioni del concetto e più precisamente: 1) Nel senso di Rousseau, si tratta della società contrapposta allo stata di natura, e quindi civile nel senso di civilizzata; 2) nel senso hegeliano, si tratta della società civile contrapposta alla Stato; 3) Comunità di cittadini che agiscono per senso civico nell’interesse della rea pubblica.

Può altresì aiutarci la definizione di società civile così come enunciata nel libro bianco della Commissione europea (16): “La società civile comprende le organizzazioni sindacali e le associazioni padronali (le parti sociali), le organizzazioni non governative, le associazioni professionali, le organizzazioni di carità, le organizzazioni di base, le organizzazioni che cointeressano i cittadini nella vita locale e comunale, con un particolare contributo delle chiese e delle comunità religiose”.

Proviamo a scendere ulteriormente nel dettaglio.

Parti sociali

Per quanto riguarda le parti sociali basti qui ricordare che il loro ruolo di dialogo interistituzionale risente direttamente dei limiti operativi della politica sociale europea, da cui restano escluse gran parte delle politiche del “welfare state”(pensioni, sicurezza sociale, assistenza sanitaria, diritto di sciopero) (17). A ben vedere la parti sociali svolgono un’azione incisiva a livello comunitario solo nei settori elencati dall’articolo 137 del TUE (18), quantunque scontino una oggettiva mancanza di rappresentatività non avendo nessun reale mandato negoziale a sostegno di accordi collettivi, ma pure funzioni consultive.

Organizzazioni non governative

Le Organizzazioni non governative generalmente, anche se non sempre, sono organizzazioni non aventi fini di lucro indipendenti dai governi e dalle loro politiche, che ottengono almeno una parte significativa dei loro introiti da fonti pubbliche e private. L' espressione organizzazione non governativa, è stata menzionata per la prima volta nell'ambito delle Nazioni Unite (19). Tra di esse si distinguono quelle attive a sostengo della affermazione dei diritti umani nel campo della cooperazione allo sviluppo, della pace e dell’ambiente. Caratteristica di queste organizzazioni è una forte spinta ideale, finalizzata all'obiettivo di contribuire allo sviluppo globale dei paesi socialmente ed economicamente più arretrati (20). Alcune di queste ONG, poche in verità, di definiscono antagoniste e si oppongono alle politiche di cooperazione finanziate dai governi.

In Italia le ONG riconosciute e finanziate dal Ministero degli Affari Esteri (21) sono circa 180. Esse operano nel campo della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo e possono ottenere il riconoscimento di idoneità con Decreto del MAE (22). Il principale effetto di tale riconoscimento è la possibilità per le ONG di ottenere dei contributi per lo svolgimento di attività di cooperazione da loro promosse, in misura non superiore al 70 per cento dell'importo delle iniziative programmate.

Inoltre possono essere affidatarie di realizzare programma specifici di cooperazione i cui oneri sono finanziati dallo stato.

Per gli altri soggetti componenti la società civile, secondo la definizione del libro bianco della Commissione, occorre tentare di proseguire nell’analisi facendo riferimento al caso italiano e prendendo come riferimento la Classificazione delle forme giuridiche legali così come sviluppate dall’ISTAT nella pubblicazione Metodi enorme n. 26 del 2005 (23).

Società cooperativa sociale

Le cooperative sociali (24), disciplinate con L. n. 381/1991, si distinguono dalla tipologia classica delle cooperative per il perseguimento di un fine che è esterno al gruppo sociale che le costituisce, ossia l’interesse sociale alla “promozione umana” e alla “integrazione sociale dei cittadini” diversamente dal perseguimento degli interessi dei soci della cooperativa. Le attività che le cooperative sociali svolgono sono essenzialmente due: quella della gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse (agricole, industriali, commerciali o di servizi) volte all’inserimento di persone svantaggiate.

Associazione riconosciuta

Per associazione riconosciuta si intende un ente di diritto privato, dotato di personalità giuridica e caratterizzato da una struttura associativa, a base contrattuale e con la partecipazione di una pluralità di persone. Tali enti non hanno una finalità lucrativa e sono caratterizzati dalla preminenza della volontà degli associati. Elementi costitutivi sono la pluralità di persone e lo scopo comune. In tali associazioni l’intervento dello Stato assume connotati più penetranti. Il legislatore, infatti, provvede a sancire una serie di regole volte fondamentalmente a garantire il raggiungimento dello scopo dell’ente e a tutelare sia le persone fisiche che ne fanno parte, sia i terzi che con questo entrino in contatto.

Fondazione (esclusa fondazione bancaria)

Per fondazioni (25) si intendono quegli enti a struttura istituzionale forniti di personalità giuridica, costituiti da volontà unilaterale di un costituente o fondatore. Tali enti sono caratterizzati dalla preminenza della volontà del fondatore e, quindi, dall’assenza dell’organo assembleare. Esse non hanno per scopo lo svolgimento di attività economiche e si distinguono dalle associazioni per la preminenza dell’elemento patrimoniale su quello personale. Elementi costitutivi della fondazione sono, pertanto, il patrimonio e lo scopo.

Ente ecclesiastico

Per ente ecclesiastico (26) si intende una categoria giuridica propria dell’ordinamento statale e non dell’ordinamento canonico. Tale nozione è attribuita dallo Stato in stretta relazione con l’attività effettivamente espletata dall’ente che deve perseguire fini di religione o di culto. Gli enti ecclesiastici vengono riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili e sono tenuti all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche private in modo da rendere conoscibili le norme interne di funzionamento ed i poteri degli organi di rappresentanza. Anche gli enti delle confessioni non cattoliche sono enti ecclesiastici. Sono considerate attività di religione e di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana.

Società di mutuo soccorso

Per società di mutuo soccorso (27) si intendono quegli enti che si propongono il fine di assicurare ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavoro o di vecchiaia e venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti. Tali società possono conseguire la personalità giuridica nei modi stabiliti dalla l. n. 3818/1886. In via generale il mutuo soccorso può essere considerato come un’operazione attraverso la quale, al fine di raccogliere mezzi economici per ripartire i rischi, un gruppo di persone, a quegli stessi rischi potenzialmente soggetti, si quota per un certo importo. Caratteristica fondamentale deve necessariamente essere la totale mancanza del fine lucrativo. L’attività svolta dalle società di mutuo soccorso, specie di quelle di più recente costituzione si è spostata verso spazi di intervento rivolti all’assistenza sanitaria integrativa. Questi organismi beneficiano di agevolazioni ed esenzioni sia per l’imposizione diretta che indiretta.

Associazione non riconosciuta

Per associazione non riconosciuta (28) si intende un gruppo di persone organizzatosi spontaneamente e stabilmente per perseguire uno scopo di comune interesse a carattere non economico, senza il riconoscimento statale e quindi privo della personalità giuridica. Lo scopo perseguito dalle associazioni non riconosciute non è lucrativo. La finalità di tali enti è una finalità ideale: politica, sindacale, culturale, sportiva, eccetera. L’associazione non riconosciuta è caratterizzata da una struttura aperta del rapporto, e cioè vi è la possibilità che nuovi membri aderiscano liberamente al gruppo.

Comitato

Il comitato è composto da un gruppo di persone che, attraverso un’aggregazione di mezzi materiali, si propone il raggiungimento di uno scopo altruistico. Il comitato mira alla formazione di un patrimonio destinato ad uno scopo. Il vincolo di destinazione che grava sui fondi raccolti non può essere modificato successivamente dai componenti il comitato. I casi di comitati più frequenti nella pratica sono: i comitati di soccorso, di beneficenza, di promozione di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti e così via.

Le Cooperative sociali in Italia

Particolare rilievo sociale ed economico è assunto dalle cooperative sociali. Per una analisi della loro natura e funzioni si fa riferimento alla relativa pubblicazione dell’Istat (29). I base alla legge 381 del 1991, esse si distinguono in quattro tipologie:
• cooperative di tipo A, se svolgono attività finalizzate all’offerta di servizi socio-sanitari ed educativi;
• cooperative di tipo B, se svolgono attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate;
• cooperative ad oggetto misto (A+B), se svolgono sia attività relative all’offerta di servizi sociosanitari ed educativi, sia attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate;
• consorzi sociali, cioè consorzi costituiti come società cooperative aventi la base sociale formata in misura non inferiore al settanta per cento da cooperative sociali.

Le cooperative sociali attive in Italia al 31 dicembre 2003 sono 6.159. Rispetto ai risultati della rilevazione precedente, riferiti al 2001, il numero delle cooperative sociali attive è cresciuto del 11,7 per cento. La metà delle cooperative è localizzata nell’Italia settentrionale (2.926 cooperative, pari al 47,5 per cento del totale), mentre nel Centro e nel Mezzogiorno opera, rispettivamente, il 20,1 per cento (pari a 1.235 cooperative) e il 32,4 per cento (pari a 1.998).

I soci delle cooperative sociali sono 220.464, distinti in 214.970 persone fisiche e 5.494 persone giuridiche. Il 96,7 per cento delle cooperative impiega personale retribuito (dipendenti, collaboratori e lavoratori interinali). I lavoratori occupati sono in tutto 189 mila, con una media di 30,7 lavoratori per cooperativa.

Dal punto di vista economico le cooperative sociali fanno registrare nel 2003 un valore della produzione complessivamente pari a 4.652 milioni di euro, con un importo medio per cooperativa di circa 755 mila euro.

Nelle cooperative sociali operano con 221.013 persone, di cui 161.248 dipendenti, 27.389 lavoratori con contratto di collaborazione, 27.715 volontari, 3.357 volontari del servizio civile1, 807 religiosi e 497 lavoratori interinali.

Così come per i soci anche per il personale non si può fare a meno di notare la significativa presenza di donne. La quota di donne sul totale è, infatti, pari al 69,7 per cento. Tale quota sale al 73,1 per cento tra i dipendenti, mentre scende rispettivamente al 52,9 per cento e al 33,0 per cento tra i volontari e i religiosi.

Il totale delle entrate delle cooperative è composto in misura prevalente dai ricavi delle vendite e delle prestazioni di fonte pubblica e di fonte privata (pari al 68,9 per cento e al 26,1 per cento, rispettivamente), e da una quota residuale di altri ricavi2 (5,0 per cento). La prevalenza del ricorso al finanziamento pubblico è relativamente più accentuata per le cooperative di tipo A (71,9 per cento), mentre lo è meno per le cooperative di tipo B (50,4 per cento).

Il costo della produzione vede la prevalenza di spese per il personale (56,1 per cento) e, in via secondaria, di spese per servizi (28,9 per cento), per materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci (7,2 per cento), di altri costi (7,8 per cento).

Le istituzioni non profit in Italia

Per una disamina relativa alle organizzazioni non profit, con una particolare attenzione a quelle operanti nel settore della cooperazione allo sviluppo si è preso in esame la rilevazione censuaria dell’ISTAT del 1999 (30).

Sono 221.412 gli enti non profit censiti nel 1999 di cui 165.336 svolgono attività regolare tutto l’anno. Tali enti si distinguono in Associazioni riconosciute, Fondazioni, Associazione non riconosciuta, Comitati, Cooperativa sociale ed altre forme. Sono 2.570 le imprese controllate dagli enti non profit. Quelle operanti nel settore ambientale sono 3.277.

Nella cooperazione e solidarietà internazionale operano 1.433 enti. Di queste 420 sono associazioni riconosciute, 36 Fondazioni, 845 sono associazioni non riconosciute, 90 sono comitati, 10 le cooperative sociali, e 30 hanno altra forma giuridica.

Le non profit censite nel 1999 hanno in totale 531.926 lavoratori dipendenti, 17.546 distaccati o comandati, 79.940 a collaborazione continuata e continuativa, 3.221.185 volontari, 96.048 religiosi, 27.788 obiettori.

Le organizzazioni operanti nel settore della cooperazione e solidarietà internazionale impiegano 908 dipendenti, 154 lavoratori distaccati, 597 a co.co.co., 34.230 volontari, 1.241 religiosi e 293 obiettori.

Le entrate delle istituzioni non profit ammontano ad un totale di 73.116,868 miliardi di lire di cui 839,881 sono le entrate delle non profit operanti nella cooperazione e solidarietà internazionale. Le uscite sono pari a 68.911,900 miliardi, con 817,805 miliardi per quelle della comparazione e solidarietà internazionale.

Le fonti di entrate sono costituite da 26.368,799 miliardi di lire di fonte pubblica provenienti da contributi a titolo gratuito e ricavi per contratti e/o convenzioni con istituzioni e enti pubblici nazionali ed internazionali. 12.180,167 miliardi sono i contributi degli aderenti. 10.279,716 miliardi sono i ricavi provenienti dalla vendita di beni e servizi, 2.394,400 da donazioni e lasciti, 5.915,171 miliardi sono i redditi finanziari e patrimoniali e 6.978, 614 miliardi sono le altre entrate di fonte privata.

Nelle uscite le principali destinazioni sono 24.936,388 miliardi di lire per il personale dipendente e 19.800, 230 miliardi per acquisto di beni e servizi.

Nel settore della cooperazione e solidarietà internazionale 118,453 miliardi di lire provengono da sussidi e contributi pubblici a titolo gratuito. 171,423 miliardi di lire provengono da contratti e convenzioni con enti pollici nazionali ed internazionali. 51,412 sono i miliardi di lire versati dai soci, 64,881 miliardi sono i ricavi provenienti dalla vendita di beni e servizi, 29,.878 da donazioni e lasciti, 20,420 da redditi finanziari e patrimoniali e 117,414 miliardi sono le altre entrate di fonte privata per un totale di 839,881 miliardi di lire.

La società civile quale rappresentanza funzionale di interessi nell’azione di lobbing comunitario

I dati e le rilevazioni sopra riportate, seppur attinenti esclusivamente al caso italiano, possono sicuramente essere sufficienti per tratteggiare un quadro complessivo degli interessi sociali, politici, economici e finanziari rappresentanti dalle istituzioni che compongono la società civile.

I grandi interessi attenti al trasferimento delle competenze a livello comunitario trovano tra Bruxelles e Strasburgo un’ampia gamma di rappresentanza. Le grandi imprese, le rappresentanze di alcuni settori economici, le regioni della aree forti, transfrontaliere ed ultraperiferiche esercitano un’azione di lobbing, oltre che sulla Commissione e Parlamento, sui Governi nazionali in sede di Consiglio. I Governi sono molto sensibili per ovvi motivi elettorali e di raccolta del consenso politico.

Tra questi gruppi di interesse si colloca a tutti gli effetti anche la società civile come precedentemente identificata portatrice di interessi diffusi, ma molto più spesso di argomentazioni tecniche e settoriali che hanno esclusivo riferimento ai proprio interessi consolidati e strutturati.

Si aggiunga che il dialogo sociale europeo subisce una serie di limiti intrinseci che con aiutano di certo a sostenere una reale e diffusa partecipazione dei cittadini, i rappresentati della società civile.

Solo pochi privilegiati hanno accesso e partecipano alla vita comunitaria sotto forma di gruppi di pressione organizzati. Essi sono delle vere e proprie élite che tendono a rafforzarsi sempre più nelle proprie risorse finanziare e concettuali. I coordinamenti europei delle organizzazioni della società civile sono riconosciuti e finanziati dalla Commissione stessa, né più ne meno che i partiti politici europei (31).


Da questo punto di vista il dialogo con la società civile non è certo un modo per risolvere il problema del deficit democratico. Le decisioni di governo, e le relative iniziative politiche, non sono più democratiche quanto più è diffusa la comunicazione, la consultazione e la partecipazione. La legittimità democratica si acquista attraverso il dibattito politico e l’investitura popolare.

Si tenga inoltre presente che le elite tecnocratiche della società civile sono selezionate e finanziate esse stesse dal livello di governo e che la verifica della reale rappresentatività, senza consultazione popolare e ben poco compatibile con i postulati democratici che prevedono i meccanismi tipici del voto individuale. La legittimità del dialogo sociale e conseguentemente dell’azione delle organizzazioni della società civile, è esclusivamente funzionale e si inquadra all’interno del metodo comunitario che si caratterizza per fenomeni sostanzialmente neo-cooporativi.

Ogni rafforzamento del dialogo sociale può non favorire, anzi talvolta può contraddire, la legittimità democratica che viene arbitrariamente perseguita.

Identiche considerazioni possono essere formulata in merito al ruolo svolto dalla società civile nel rendere il più possibile pubblica e trasparente la riflessione sulla futuro dell’Europa e sugli assetti istituzionali dell’Unione in seno ai lavori della Convenzione di Bruxelles. Agli incontri hanno partecipato un numero estremamente ristretto di rappresentati della società civile organizzata, elitè in assoluto rapporto di contiguità istituzionale con la tecnocrazia di Bruxelles. Non si può non sottolineare come il dibattito abbia in ogni caso sostenuto la dialettica dei partiti politici e come le opinioni pubbliche nazionali siano state parzialmente coinvolte anche grazie ad una maggiore attenzione dei media. In ogni caso ancora troppo poco rispetto all’obiettivo di una vera politicizzazione del dibattito europeo.

Campoleone, 27 aprile 2007

(1)Amartya Sen, Globalizzazione e liberta, Mondatori, 2002

(2)Pier Carlo Padoan, Gli squilibri globali e l’Europa, in I dilemmi dell’integrazione il futuro del modello sociale europeo”, a cura di G. Vacca e J.L. Rhi-Sausi, Il Mulino, Bologna, 2006

(3)L. Guiso, T. Jappelli, M. Padula e M. Pagano, Eu Finance and Growth, in “Economic Policy”, n. 40, ottobre 2004

(4) Jeremy Rifkin, Economia all’idrogeno, Mondatori, Milano 2002

(5) Consiglio europeo di Bruxelles 8-9 marzo 2007, Conclusioni della Presidenza. http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/93153.pdf

(6) Editoriale, Il Federalista, Pavia, anno XLIX, 2007, numero 1

(7) T. Padoa Schioppa, Mancanze d’Europa, Torino, 17 gennaio 2007. http://www.mef.gov.it/documentazione/discorsi-del-ministro/media/185710_TPSSpinelli.pdf

(8) Ulrich Beck. Che cosa è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria. Carocci, Roma, 1999

(9)A.S. e E.R., Problemi della federazione europea, Progetto di un Manifesto, Società Anonima Poligrafica Italiana, Roma 22 gennaio 1944.“Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l'autonomia che consente una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.”

(10)Angelo Bolaffi, La sfida di darsi una Costituzione non più legata allo Stato-nazione, Il Riformista, 24 gennaio 2007

(11)Maurizio Fioravanti, I due fuochi vitali dell’Unione, CaffèEuropa, 26 dicembre 2005

(12)Maurizio Fioravanti, Per un nuovo federalismo europeo, in Convegno Le prospettive del federalismo in Europa, Roma, 26 gennaio 2007

(13) Mario Albertini, Le radici storiche e culturali del federalismo europeo, in Il Federalismo: antologia e definizione, Il Mulino, Bologna, 1979.“Opinioni di questo genere, che ignorano che la federazione e' uno stato mentre la confederazione non lo è, che ignorano che un gruppo di stati nazionali mantiene le sue caratteristiche essenziali fino al momento nel quale viene sostituito da uno stato federale, possono manifestarsi solo perché "le idee sono malleabili". Ma "le cose sono dure ed angolose", ed e' per questo che le sole idee che valgono, che servono agli uomini per operare, sono quelle che fanno davvero i conti con le cose, per dure ed angolose che siano”.

(14) Christine Martha Merkel. Lo sviluppo della società civile europea come base della democrazia, in Il federalismo e la democrazia europea, a cura di Gustavo Zagrebelsky, la Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994

(15) Nicola Verola, L’Europa legittima, Passigli Editore, Firenze, 2006

(16)La Governance europea, Libro bianco della Commissione, COM (2001)428, luglio 2001

(17)M. Grandi, La contrattazione collettiva europea- aspetti giuridici, in Fondazione Giulio Pastore, Diritto e politiche del lavoro, La contrattazione collettiva europea – Profili giuridici ed economici, Franco Angeli, Milano, 2001

(18) Articolo 137
1. Per conseguire gli obiettivi previsti all'articolo 136, la Comunità sostiene e completa l'azione degli Stati membri nei seguenti settori:
a) miglioramento, in particolare, dell'ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori;
b) condizioni di lavoro;
c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori;
d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro;
e) informazione e consultazione dei lavoratori;
f) rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione, fatto salvo il paragrafo 5;
g) condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità;
h) integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, fatto salvo l'articolo 150;
i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro;
j) lotta contro l'esclusione sociale;
k) modernizzazione dei regimi di protezione sociale, fatto salvo il disposto della lettera c).
omissis
5. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata.

(19)L'articolo 71 della Carta costituzionale dell'ONU prevede infatti la possibilità che il Consiglio Economico e Sociale possa consultare "organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrano nella sua competenza".

(20) L'ispirazione comune degli statuti, delle carte dei principi e dei progetti dei singoli raggruppamenti fa riferimento a valori di solidarietà e giustizia condivisi:
Sensibilizzare il Nord ai problemi del Sud del mondo attraverso l'educazione allo sviluppo.
Utilizzare adeguati metodi di raccolta fondi e realizzare azioni il cui effetto sia duraturo.
Rendere visibile un movimento mondiale di critica e opposizione al sistema di relazioni internazionali, perseguendo condizioni di pari opportunità tra popoli, generi e culture.
Sviluppare il pensiero democratico e tutelare i diritti umani, ponendo l'accento sul disarmo, la pace, la cooperazione allo sviluppo.
Non cedere all'illusione dello strumento militare quale risoluzione dei conflitti.
Rimuovere le cause del sottosviluppo, con particolare attenzione ai problemi dell'alimentazione, aumentando la produzione agricola.
Sostenere lo sviluppo di una società multi etnica.
Combattere lo sfruttamento minorile.
Eliminare le disparità tra i sessi, rafforzando il ruolo delle donne nel tessuto economico.
Tutelare le zone ecologicamente fragili, promuovendo l'uso non distruttivo delle risorse.

(21) Secondo quanto stabilito dall'art. 28 della legge 49 del 26.02.1987 ("Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo") e dal relativo Regolamento di esecuzione (artt. 30, 40 e 41),

(22) Elenco delle ONG riconosciute dal MAE: http://www.esteri.it/ita/4_28_66_75_249.asp

(23)http://www.istat.it/dati/catalogo/20060215_00/

(24)Base giuridica. L. n. 381/1991, l. n. 52/1996, d.l. n. 510/1996, l. n. 193/2000.

(25)Base giuridica. Art. 14 e seguenti del c.c.

(26)Base giuridica. Art. 2 l. n. 1159/1929 e art. 10 r.d. 28 febbraio 1930, n. 289.

(27)Base giuridica. L. n. 3818/1886, l. 15 aprile 1886 n. 3818.

(28)Base giuridica. Art. 39 e seguenti del c.c.

(29)Le cooperative sociali in Italia, ISTAT, anno 2003. http://www.istat.it/dati/catalogo/20061211_00/

(30)Istituzioni non profit in Italia, ISTAT, Rilevazione censuaria del 1999. Dati pubblicati il 7 ottobre 2002. http://www.istat.it/dati/catalogo/20020710_01/

(31)Il Regolamento (CE) n. 2004/2003 definisce lo statuto ed al finanziamento dei partiti politici a livello europeo. Un partito politico europeo, per essere riconosciuto e ottenere il finanziamento, deve essere rappresentato in almeno un quarto degli Stati membri da deputati al Parlamento europeo o da deputati dei parlamenti nazionali o delle assemblee regionali o, in alternativa, esso deve aver ottenuto in almeno un quarto degli Stati membri un minimo del 3% dei voti alle ultime elezioni europee. Con questo regolamento è stata formalizzata l’idea che i partiti europei, diversamente dal ruolo previsto per i partiti politici nelle Costituzioni nazionali, dove essi sono espressione della società civile e non emanazioni dello Stato, sono invece subordinati ai Trattati e alle istituzioni dell’Unione europea. E’ il Parlamento europeo che ne approva l'esistenza, che giudica se il loro Statuto è conforme o no ai principi e ai Trattati su cui si fonda l'Ue riguardo libertà, democrazia, diritti umani e norme di legge, e che può quindi, in casi limite, deciderne lo scioglimento. Occorre notare che il diritto di eliminare un partito per decisione di un Parlamento è una inquietante novità nella democrazia liberale.

(32) Relazione predisposta per l'intervento all'Ufficio del dibattito di Firenze del 28 aprile 2007

Nicola Forlani

mercoledì 7 gennaio 2009

Bobbio, lo stato federale e la pace

Campoleoene 28 ottobre 2007

Nella sconfinata produzione scientifica di Noberto Bobbio non mancano iriferimenti al federalismo, quale corrente culturale e politica nata durantela Resistenza, e al concetto di Stato federale, tanto regolatore deiconflitti che forma politica di un ordine superiore.

Anche nella sua Autobiografia (1), al capitolo VII, Bobbio dedica attenzionealla questione dei rapporti tra Stato federale e pace. La gran parte deisuoi scritti in tema sono raccolti in due volumi: Il problema della guerra ele vie della pace (Il Mulino, Bologna, 1979) e Il Terzo Assente (Sonda,Torino, 1989).

Bobbio racconta della sua partecipazione alla prima Marcia della PacePerugia-Assisi in cui presero la parola, tra gli altri, il promotoredell’iniziativa Aldo Capitini, oltre a Arturo Carlo Jemolo, Ernesto Rossi Renato Guttuso. Una antica conoscenza quella con l’ideatore della Marcia.

L’ingresso di Bobbio nell’antifascismo attivo avviene nel 1939 con la sua partecipazione alle riunioni del movimento liberalsocialista nato attorno a Guido Calogero, professore di filosofia all’università di Pisa ed Aldo Capitini stesso, già segretario della Scuola normale superiore.

Ricordando la prima Marcia del 24 settembre 1961, Bobbio definisce la dimensione della pace quale ordine istituzionale e giuridico ed il suo rapporto con il principio etico religioso della non violenza. Più precisamente, egli scrive:

“Per uno come me che ha vissuto gli anni della maturazione sotto un regime dispotico e durante una guerra durata cinque lunghi anni, i problemi urgenti, caduto il regime e finita la guerra sono soprattutto la democrazia e la pace, fra loro connessi da un medesimo intento: eliminare la violenza come mezzo per risolvere i conflitti sia all’interno di uno stesso Stato sia nel rapporto tra Stati nazionali.

Per quel che riguarda il problema internazionale, il primo passo da compiere era la federazione tra gli Stati europei, per scongiurare il ripetersi di quella che era stata giustamente chiamata la guerra civile europea, durata quasi un secolo. Gli Stati uniti d’Europa erano concepiti come prima fase di una federazione universale che avrebbe realizzato il sogno di Kant della pace perpetua.

L’unione di stati passa attraverso tre fasi successive: l’alleanza, la confederazione, lo Stato federale. Mentre la confederazione è una società di Stati, lo Stato federale è uno Stato di Stati. Le Nazioni Unite, il cui statuto è entrato in vigore il 25 ottobre 1945, rappresentano un passaggio intermedio fra la Società della nazioni, che aveva il carattere di pura associazione tra Stati nazionali, e gli Stati uniti del mondo, sogno ideale di un Superstato.

Il Superstato è un potere collocato al di sopra degli altri Stati, in possesso di una forza talmente superiore rispetto ai singoli Stati qual è quella che lo Stato nazionale possiede nei confronti dei singoli individui.

Per realizzare questo obiettivo è necessaria l’unione politica, l’unica che consenta al Superstato di usare la forza se necessario. Soltanto il Superstato può esercitare il monopolio della forza, trasformando un rapporto tra pari in un rapporto da superiore ad inferiore.

Vi sono due forme di pacifismo che non si escludono l’un l’altra: quello istituzionale o giuridico e quello etico religioso. Il primo mira all’eliminazione della guerra fra Stati sovrani attraverso l’unione di singoli Stati in un Superstato, il secondo attraverso l’educazione alla non violenza. I miei scritti sulla pace e la guerra appartengono prevalentemente al primo. La Marcia della Pace, promossa da Capitini, era, invece, una tipica espressione del secondo.

La differenza tra i due pacifismi è evidente: il Superstato elimina la guerra ma non l’uso della forza come extrema ratio; l’educazione alla non violenza tende all’eliminazione dell’uso della forza anche come extrema ratio. L’uno è meno efficace ma più realistico. Il secondo è più efficace ma è anche più irrealistico.”

Parole di una chiarezza cristallina su cui, da federalisti, non si può che concordare nella consapevolezza che il MFE per sopravvivere e per guardare con fiducia al proprio avvenire ha bisogno di continuare a coltivare i grandi ideali. Ma non ha bisogno di inventare nulla. Ha bisogno soltanto di restare fedele alla propria storia.

Nicola Forlani

(1) Noberto Bobbio, Autobiografia, a cura di Alberto Papuzzi, Editori
Laterza, Bari, 2004

Al rialZO

Campoleone, 27 ottobre 2007

I 18 si sono detti disponibili solo per un testo al rialzo. Da “costituzione” la chiameranno “COSTITUZIONE”?

Al di la della facile battuta, ma che sgorga sinceramente dal cuore, l’incontro di Madrid segna un punto di non ritorno. Il negoziato intergovernativo sul Tce è ufficialmente aperto e chi sa che non sia già in fase più avanzata di quello che possiamo immaginare.

Il dottor sottile di sicuro ne dovrebbe sapere qualcosa più di noi. Occorre sperare che più che il nome si riesca a salvare la sostanza del trattato, essenziale per dare stabilità all’Unione a 27, con l’auspicio che l’infortunio francese possa chiudersi ben prima della primavera del 2009. Prima che la disaffezione dell’opinione pubblica per questa Europa delle ambiguità non sommerga, con un’affluenza ridotta ai minimi termini, l’istituto dell’elezione diretta al Parlamento europeo.

Il processo costituzionale europeo si è di fatto aperto sin dal 1957 e il trattato che istituisce una “cosa emendata” per l’Europa né sarà uno degli strumenti giuridici. Cos’è il trattato di Roma se non la prima costituzione imperfetta? Tra l’altro, dal ’57 ad oggi si sono superati ostacoli ben maggiori di quelli frapposti dalla scellerata scelta di Chirac di sottoporre il trattato a referendum.

Ora il problema è capire se le “Mancanze d’Europa”, lucidamente evidenziate da Tommaso Padoa Schioppa in occasione della Lecture Spinelli del 17 gennaio 2007 (Globalizzazione, Energia, Finanza) da curare, come egli sostiene, “con la scelta consapevole del modello federale”, ma aggiungendo poi, ”Una scelta che non si traduce in realtà senza una discontinuità nell’assetto costituzionale”, stiano li a sottolineare come la visionaria prospettiva della Federazione nell’Unione, degli Stati Uniti nell’Europa, sia già ben più consolidata di quello che potrebbe apparire. Si aggiunga infine che “l’Europa dei progetti” altro non è che la riflessione di Padoa Schioppa in chiave intergovernativa. Se così fosse ci attenderebbero tempi di grandi novità, ad iniziare dal MFE stesso.

Nicola Forlani

Tommaso Padoa Schioppa – Mancanze d’Europa – 17 gennaio 2007

http://www.csfederalismo.it/User/Convegni/seminari/Intervento%20Ministro%20P
adoa-Schioppa.pdf

A pensar male si commette peccato, ma

Campoleoene, 11 ottobre 2007

Se per costruire la Federazione europea fosse sufficiente far passeggiareper i vicoli di Ventotene i rappresentati più autorevoli del mondo politico ed economico occorrerebbe prendere in esame l’eventualità di trasformare il Movimento federalista in un’agenzia di promozione turistica.

E’ del tutto evidente che la visita di Veltroni non sarà ricordata come un evento di portata storica nel processo di integrazione. Così come è altrettanto evidente come alla luce l’impellente necessità di una comparsata, ad uso e consumo delle fedeli telecamere del TG1 e con tanto di giovani festanti e gaudenti, sia decisamente preferibile che la sceneggiata vada in onda da quel di Ventotene che non da Pantelleria, piuttosto che dalla Capraia o da Panarea.

Eppure una qualche lettura politica deve pur essere tentata. Se è stata fatta questa scelta qualche motivo, probabilmente poco visibile ai puri d’animo, deve esistere.

I comizi per le primarie del Partito democratico si chiudono tassativamente venerdì 12 ottobre. Sabato è il giorno di riflessione prima del voto e i candidati sono tenuti ad interrompere la campagna elettorale. Pertanto la visita a Ventotene non è da considerarsi quale evento conclusivo di un bel nulla. E’ una passeggiata privata dal valore simbolico. E allora, se un messaggio vuol essere lanciato a chi e diretto e perché?

Facciamo un passo indietro. Napolitano ha scelto la commemorazione di Spinelli nel luogo del suo confino quale prima uscita pubblica del suo settennato. A questo si aggiunga che a favore di Veltroni si è schierato tutto l’establishment ulivista tranne, guarda un po’, il figlioccio politico del Presidente della Repubblica, l’onorevole Umberto Ranieri. Nella decisione assunta dal Presidente della Commissione affari esteri di correre con e per Enrico Letta è quindi difficile non leggere un orientamento, più o meno palese del Colle, in relazione al processo costituente del nuovo soggetto politico.

Orbene Veltroni, avendo l’accortezza di non tirare in ballo Napolitano a campagna elettorale ancora aperta, si reca nel luogo simbolo dell’interesse presidenziale. Il gesto può avere due distinte letture, ma entrambi veritiere. E’ probabile che da un lato egli voglia omaggiare l’orientamento europeista di Napolitano recandosi a baciare l’anello e a testimoniare professione di fede. Dall’altro egli potrebbe voler raccogliere, motu proprio, quell’imprimatur che non gli era sin qui giunto dal Colle. In concreto, nello stesso tempo, potrebbe lasciar intendere due concetti: sono
con te, ma posso fare anche a meno di te.

Questa lettura dei fatti è incentrata su tristi giochi di potere e lascia poco spazio all’Europa, al progetto federalista, alla memoria di Altiero, all’evoluzione culturale del comunismo militante italiano. Altre partite si stanno giocando, e su altri piani. Costituito il Partito democratico è probabile che si assisterà ad un ampio rimescolamento delle carte. Alcuni di questi rivolgimenti potrebbero prevedere anche la sciagurata ipotesi di dimissioni anticipate del Presidente della Repubblica, ovviamente per motivi di età. A pensar male si commette peccato, ma …quasi sempre ci si azzecca.

Nicola Forlani

Per fondare lo stato federale europeo

Campoleoene, 25 settembre 2007

La prossima riunione informale del Consiglio europeo si terrà a Lisbona il 18/19 ottobre. Con buona probabilità, in questa sede, dovrebbe rilanciarsi il processo d integrazione attraverso al sottoscrizione di un Trattato di riforma che, nella buona sostanza, riprenderà le principali novità istituzionali già previste dal Trattato costituzionale bocciato due anni or sono nelle tornate referendarie in Francia e nei Paesi Bassi.

Anche di fronte il farraginoso compromesso politico su cui si sono esercitati i principali leader dei paesi membri, l’Unione risulta ancora del tutto inadeguata ad affrontare le grandi sfide su scala planetaria: approvvigionamento energetico e gestione delle risorse ambientali; terrorismo internazionale e presenza propositiva nei principali scenari di crisi internazionale; mercati finanziari e concorrenza globale.

La strada dell’integrazione differenziata, dell’Europa a due velocità, della federazione nell’Unione inizia ad essere sostenuta da molti commentatori, esperti e rappresentati politici ed istituzionali. Tra tutti basti ricordare le posizioni ultimamente espresse dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Se si vuol costruire un’Europa capace di agire occorre dar vita all’interno dell’Unione europea ad un’avanguardia di paesi che vogliano tra loro stringere un Patto federale. Alcuni stati devono dichiararsi disposti a cedere, una volta e per sempre, la propria sovranità ad un costituendo potere europeo. In conseguenza di tale patto occorrerà rimettere ad una nuova Convenzione con poteri costituenti il compito di stabilire in termini costituzionali i rapporti tra i poteri della federazione e quelli degli stati membri.

L’Italia, ad iniziare da Spinelli e De Gasperi, ha svolto un ruolo propulsivo all’interno del processo di integrazione europea. L’Italia, paese fondatore della Comunità, può e deve rinnovare il proprio impegno attraverso lo sviluppo di una forte iniziativa europea tesa a rinnovare l’impegno costituende dei padri fondatori: la costituzione di un’Unione politica su basi federali.

Per tali ambiziosi obiettivi occorre che le persone di buona volontà sappiano ritrovarsi nei momenti di aggregazione dei nuovi soggetti politici. Costoro desiderano riaffermare come per il nostro paese interesse nazionale ed interesse europeo siano due prospettive assolutamente coincidenti.

Un tema di interesse storico come la fondazione dello Stato federale europeo potrebbe contribuire ad arrestare il progressivo imbarbarimento della lotta politica. Per il passato l’Europa è stato un obiettivo su cui si sono incontrate persone anche di schieramenti politici opposti. Anche per il futuro l’Europa potrebbe essere un obiettivo trasversale su cui ricostruire un rinnovato spirito di patriottismo nazionale non più inteso come comunità di valore ma come comunità di destino.

Nicola Forlani