Caro Franco,
in vista degli adempimenti previsti in occasione del prossimo comitato centrale, credo sia opportuno rendere pubblica la mia intenzione di non essere più presente all'interno della Direzione nazionale. Già ben prima del Congresso di Gorizia avevo accennato della cosa ad alcuni amici federalisti. Sono convinto che anche tu concorderai con l'opportunità del mio proposito.
A giustificazione di ciò potrei portare le difficoltà oggettive che avrò nei prossimi mesi per poter dedicare tempo nelle trasferte milanesi. Per certo sarò molto impegnato tanto sul piano familiare, che su quello professionale ed amministrativo, senza tralasciare un nuovo fronte di impegno umano nel volontariato sociale, che ho intrapreso da alcuni anni, e che mi sta sempre più assorbendo. Tutto ciò sarà pur vero, ma quando si fa trenta è sempre possibile far trentuno. Vedrai che a qualche "zingarata meneghina" non mancherò di certo.
Per venire al concreto, credo si sia esaurita una fase del mio impegno militante. Per tanti anni ho dovuto fronteggiare, quale esponete di Alternativa europea, tanto gli organi istituzionali, prima l'Ufficio del Dibattito e poi la Direzione (a cui in verità avevo già preso parte nei primi anni novanta). Non di rado mi sono sobbarcato doppi viaggi nelle terre padane, anche a distanza di pochi giorni, per raggiungere prima gli amici in Direzione e poi i militanti di AE a Pavia, Milano e dintorni. Non so se abbia agito sempre per il meglio, ma sono certo che se siamo giunti alla "Svolta di Gorizia" - un sorta di ritorno al futuro per un militante ormai organicamente albertiniano, quale io mi considero - ci sia anche il mio piccolo granellino di sabbia, e questo mi basta.
In secondo luogo, sono convinto che l'esempio sia sempre la migliore forma di comunicazione. Nel Movimento non ci sono cariche e potere a cui ambire, ma solo responsabilità che, se, quando e nel caso, doversi assumere. Se è questo l'assunto in cui realmente crediamo non bisogna mai aver timore di abbandonare gli incarichi e, con essi, il profilo del proprio contributo. Per alcuni anni, dopo il Congresso di Salerno, non mi sono neanche ripresentato per il Comitato Centrale, per l'intimo bisogno che avvertivo di respirare aria nuova.
Tutto ciò non vuol certo dire che intenda ridurre, o peggio, abbandonare il mio impegno militante, anzi. L'intenzione è proprio quella opposta. Ho la necessità di sentirmi libero di poter incrociare le vele del mio vascello nei freschi zefiri del mare aperto, lavorando sul campo nelle nuove attività che dovremmo iniziare da qui a pochi mesi. E' necessario che abbandoni le estenuanti bonacce di un perdurante, e per molti versi ormai stucchevole, confronto congressuale che alcuni si ostinano a voler continuare a tenere aperto. E' un piano su cui, ti confesso, non trovo proprio più alcun interesse o stimolo.
Con Gorizia si è chiusa una fase nella vita delle nostra organizzazione in cui alcuni di noi hanno creduto di poter dar vita ad un modello di Movimento che potesse superare quello autonomista di Mario Albertini. Va da se che è legittimo, anzi auspicabile, quando si sia mossi dalla sincera convinzione delle bontà dei proprio propositi, sostenere e percorrere nuove strade. Ma quando queste risultano dei vicoli ciechi è bene, prontamente, cambiare rotta.
E' evidente che quanto avvenuto nel MFE è conseguenza diretta anche del quadro politico generale. Oggettivamente, la sbornia costituzional/gaudente aveva fortissimi elementi attrattivi. Vuoi per una sorta di malcelato conformismo, vuoi per una tendenza tipica dell'animo umano che fa sempre fatica a distinguere se stesso dal branco dei proprio simili, vuoi per un indebolimento dell'aspetto identitario del federalismo organizzato, sta di fatto che gli anni dell'illusionismo convenzionale hanno fatto breccia anche nelle nostre fila. Si è creduto di poter fondare una nuova realtà non-stato puntato sulla semplice adozione di un terminologia a cui non corrispondeva una reale e concreta capacità di azione in termini di potere.
I risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. L'impotenza dell'Europa, a cui anche in questi giorni stiamo tristemente assistendo in relazione all'intervento militare in Libia, da il pari con l'impotenza di chi crede che questa possa farsi nell'equivoco lessicale. Un'impotenza che sta dando la stura anche ad una sempre più evidente crisi del consenso intorno al processo di unificazione; crisi che non si può liquidare erigendo linee a difesa dello status quo, pena essere travolti, come fuscelli dallo tsunami del nuovo ordine mondiale.
Dalla nascita della Ceca e sino all'Unione di Maastricht, il modello funzionalista, seppur deficitario dal punto di vista democratico, era il vero motore del processo di integrazione comunitaria; un modello che mostra sempre più evidenti segni di cedimento strutturale. Il metodo comunitario ha funzionato per anni basandosi sull'assunto che venivano trasferite competenze ad un livello sovranazionale, prendendo per buona anche la scarsa democraticità del sistema stesso, solo nella misura in cui i vantaggi per i cittadini emergevano con chiarezza ed erano facilmente misurabili, anche in termini di sviluppo economico. Venendo sempre meno evidenti i vantaggi ed aumentando i temi non risolti, si palesa la sotto struttura intimamente tecnocratica del metodo stesso, ed il conseguente elemento di privilegio di chi la incarna, volente o nolente.
Il consenso ha, sotto questo profilo, ben poco a che fare con la comunicazione, anzi. Una buona comunicazione può funzionare solo e nella misura in cui cui il "prodotto istituzionale" da promuovere, oggettivamente, risponde a bisogni economici, sociali e culturali della popolazione. In caso contrario, produce solo effetti diametralmente opposti. L'assunto che oggi l'Europa si occupa di tutto un po', tranne che dell'essenziale è sempre più percepibile dal cittadino medio. A nulla vale difendersi evidenziando le acquisizioni ormai storicamente consolidate del processo di integrazione (mercato unico, euro, libera circolazione, ecc.). I reali problemi che oggi la società europea sta vivendo (crisi economica, deterioramento del modello sociale, invecchiamento demografico, perdita di competitività) sono sempre più drammaticamente evidenti e di certo non possono trovare soluzione nelle pieghe del Trattato di Lisbona.
Ma vedo che mi sono dilungato ben oltre l'oggetto della mia missiva. Avremo tempo e modo per tornare a confrontarci su questi temi. Per intanto un caro saluto a te e agli amici delle lista del Comitato centrale che hanno avuto la bontà di leggerci in copia.
Nicola Forlani
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